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Sabato, 27 Apr 2024

Per molti affezionati lettori di Isabel Allende la sua ultima prova letteraria Donne dell’anima mia - Dell’amore impaziente, della lunga vita e delle streghe buone (Feltrinelli Editore, novembre 2020 – pp. 175, euro 15), dedicato a tutte le straordinarie donne della sua vita, in primis Panchita (sua madre) e Paula (la figlia morta), ha rappresentato un po’ una delusione.

L’autrice con questo titolo che richiama al suo libro Ines dell’anima mia (la storia di Inés de Suárez, compagna del conquistador Pedro de Valdivia, unica donna che partecipò alla sanguinosa conquista del Cile da parte degli spagnoli nel 1540), un richiamo, non certo felice, ci racconta come la sua vita sia sempre stata improntata al femminismo, l’incipit è: «Non esagero quando dico che sono femminista sin dai tempi dell’asilo».

L’autrice, citando episodi che già abbiamo avuto modo di leggere nei suoi libri più autobiografici (La casa degli spiriti, D’amore e ombra e, soprattutto, Paula, Il mio paese inventato e La somma dei giorni), ripercorre la sua vita alla luce del suo femminismo. Sia ben chiaro, il suo è un femminismo vero, militante, esplicato in azioni concrete a favore delle donne più svantaggiate mediante la sua Fondazione, creata nel 1996, per rendere omaggio a sua figlia Paula Frias prematuramente scomparsa, che aiuta le ragazze migranti o trafficate tra Messico e USA. Il suo non è un femminismo teorico, esibito a parole ma non praticato, come quello che purtroppo rileviamo in molte famose “femministe”.

Ma in più parti la Allende sembra uscire fuori tema ed anche cadere in contraddizione; ad esempio, quando parla della vecchiaia, sembra ossessionata dal decadimento fisico e mentale sui quali si dilunga, tuttavia conclude: «Basta con le pretese e le finzioni, basta lamentarsi e flagellarsi per sciocchezze. Dobbiamo volerci molto bene e volerne agli altri, senza preoccuparci di quanto bene ci viene restituito. Questo è il momento della gentilezza».

Tornando a questa breve storia del suo femminismo, scrive «Credo che all’origine della mia ribellione contro l’autorità maschile ci fosse la condizione di Panchita, mia madre, abbandonata dal marito in Perù insieme a due bambini ancora con il pannolino e un neonato in braccio. La situazione la costrinse a chiedere ospitalità ai suoi genitori in Cile, dove ho trascorso i primi anni della mia infanzia». Una situazione molto umiliante per una donna abbandonata dall’uomo che aveva sposato nonostante la contrarietà dei propri genitori.

La Allende - cresciuta in un paese profondamente patriarcale e oligarchico come il Cile, fin dalla prima infanzia vive con rabbia le diseguaglianze e ancor più quelle ben più marcate esistenti nella società rispetto alle donne, specialmente quelle più povere - racconta: «La mia idiosincrasia nei confronti del machismo cominciò proprio nell’infanzia, vedendo mia madre e le domestiche della casa come vittime, subalterne, senza mezzi né voce, o per aver sfidato le convenzioni, nel primo caso, o per il fatto di essere povere. Ovviamente ai tempi era solo un’intuizione, a questa conclusione sono giunta grazie alla terapia all’età di cinquant’anni, ma anche se non ero in grado di razionalizzare, il senso di frustrazione era così forte da avermi impresso in modo indelebile l’ossessione per la giustizia e il rifiuto viscerale nei confronti del machismo. L’indignazione era un’anomalia all’interno della mia famiglia, che si considerava intellettuale e moderna, ma che, in confronto ai modelli di oggi, apparteneva al Paleolitico […]Per decenni ho pensato a mia madre come a una vittima, ma ho imparato che il termine “vittima” va riferito a chi non ha controllo e potere sulla propria vita e non credo che questo fosse il suo caso. È vero che sembrava intrappolata, vulnerabile, a volte persino disperata, ma la sua situazione in seguito cambiò quando si mise insieme al mio patrigno e iniziarono a viaggiare. Avrebbe potuto lottare per una maggiore indipendenza, per vivere la vita che desiderava e sviluppare il suo enorme potenziale invece di sottomettersi, ma la mia opinione conta poco perché, certo, appartenendo alla generazione del femminismo ho avuto possibilità che a lei erano mancate».

Insomma, la condizione di sottomissione in cui vedeva la madre, a dire dell’autrice, è stata determinante per lo sviluppo del suo precoce femminismo e per acquisire la consapevolezza che la conquista dell’indipendenza economica sia uno strumento indispensabile di riscatto. Di certo, però, la figura paterna ha determinato una certa diffidenza nei confronti degli uomini: «Come mi sarei potuta fidare degli uomini che un giorno ti amano e quello dopo scompaiono?».

Se sul femminismo l’autrice va un po’ per slogan e un po’ per stereotipi, nel libro v’è comunque una interessante analisi del patriarcato, un fenomeno - che l’Allende certamente ha vissuto sulla sua pelle crescendo in un paese come il Cile - da cui nessuna cultura si è affrancata: «Nonostante siano cambiate molte leggi il patriarcato continua a essere il sistema imperante di oppressione politica, economica, culturale e religiosa che conferisce potere e privilegi agli uomini. Oltre alla misoginia – avversione nei confronti della donna – tale sistema prevede diverse forme di esclusione e aggressione: razzismo, omofobia, classismo, xenofobia, intolleranza nei confronti di idee e persone diverse. Il patriarcato si impone con aggressività, esige obbedienza e punisce chiunque osi sfidarlo[…] Il patriarcato è di pietra. Il femminismo è fluido e potente, profondo come un oceano e racchiude l’infinita complessità della vita[…]Al patriarcato conviene classificare le persone, così è più facile esercitare il controllo». Guardandoci attorno, è di tutta evidenza quanto questa cultura sia dura a morire.

In definitiva, Isabel dice «a cosa fa riferimento il mio femminismo? Non certo a ciò che abbiamo in mezzo alle gambe, bensì tra le orecchie. È un atteggiamento filosofico di ribellione nei confronti dell’autorità dell’uomo. È un modo di intendere i rapporti umani e di vedere il mondo, un patto per la giustizia, una lotta per l’emancipazione di donne, gay, lesbiche, queer (Lgbtqi+), insomma, di tutti gli oppressi dal sistema e di tutti quelli che desiderano aggiungersi alla lista. Un benvenuto inclusivo a chiunque, come direbbero i giovani di oggi: più siamo, meglio è».

Qualcuno penserà che la rabbia della piccola Isabel dipendesse dalla mancanza di una figura paterna ma così non fu, ci furono, prima il nonno Augustin, e poi il compagno della madre, lo zio Ramon, due uomini con un’impronta decisamente patriarcale ma che pure, nel tempo, impararono a rispettare le posizioni della piccola ribelle. La sua è una rabbia che persiste verso tutte le disuguaglianze: sociali, economiche, raziali, sessuali e persino anagrafiche data la visione escludente che la società ha degli anziani, negando loro il diritto ad una vita pienamente attiva, anche sessualmente.

La vita per Isabel è un’eterna lotta: «A volte mi hanno descritto come una persona appassionata perché non me ne sono mai stata mai tranquilla a casa come ci si aspettava che facessi, ma devo specificare che non sempre i miei comportamenti azzardati sono stati dettati da un temperamento appassionato, bensì da circostanze che mi hanno spinta in direzioni inaspettate senza lasciarmi altra scelta se non lottare. Ho vissuto in un mare in tempesta, con onde che mi portavano sulla cresta e poi mi facevano precipitare nel vuoto. Queste ondate sono state così forti in passato, che nei periodi in cui tutto andava bene, invece di rilassarmi e godermi la pace del momento, mi preparavo alla successiva violenta caduta, che credevo inevitabile. Adesso non è più così. Ora navigo alla deriva, giorno dopo giorno, contenta del semplice fatto di galleggiare finché è possibile».

Tutto questo combattivo femminismo, sembra vacillare dall’esame della situazione attuale nel mondo. «Essere donna significa vivere con la paura. Ogni donna porta impressa nel suo DNA la paura del maschio[…]Qual è l’origine di questa miscela esplosiva di desiderio e odio contro le donne? […]La risposta è ovvia: la violenza e la paura sono strumenti di controllo[…]Gli uomini temono il potere femminile, motivo per cui le leggi, le religioni e gli usi hanno imposto per secoli ogni tipo di restrizione allo sviluppo intellettuale, artistico ed economico delle donne».

Diritti umani, parità, controllo della fertilità e molto altro per le donne sono lontani dall’esser realizzati pienamente. Come venirne fuori? «Prima di tutto dobbiamo porre fine al patriarcato, il modello di organizzazione millenaria che esalta i valori (e i difetti) maschili e domina la metà femminile dell’umanità. Dobbiamo rimettere tutto in discussione, dalla religione alle leggi, dalla scienza agli usi e costumi» - e, guardando al futuro, immagina - «Ci arrabbieremo sul serio, ci arrabbieremo così tanto che la nostra furia ridurrà in polvere le fondamenta che sostengono questa civiltà. La docilità, esaltata virtù femminile, è il nostro peggior nemico, non ci è mai servita a nulla, torna comoda solo agli uomini».

Quanto ottimismo! Un omaggio «a tutte le donne anonime che hanno sofferto la violenza e che piene di dignità e coraggio si rialzano per avanzare».

Adriana Spera
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