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Giovedì, 25 Apr 2024

Il taglio di pini nella Riserva Naturale Orientata di Santa Filomena - istituita con D.M. 13 luglio 1977 per 19,7 ettari tra Montesilvano e Pescara - ad opera dei Carabinieri Forestali che la gestiscono, ha suscitato vaste critiche sul web e tra queste quelle dello scrivente presidente di G.U.F.I. (Gruppo Unitario per le Foreste Italiane, associazione nazionale) e consigliere nazionale di Italia Nostra onlus.

Su Il Centro del 21 gennaio, i Carabinieri riportano le motivazioni addotte per giustificare detti abbattimenti ma, francamente, esse ricadono nell’aforisma secondo cui “il tappo è peggiore del buco” per diverse ragioni, scientificamente fondate, che sinteticamente puntualizzo.

Si sostiene che «gli alberi che hanno dato origine alla pineta di Santa Filomena hanno raggiunto i 70/80 anni di età e sono, dunque, arrivati “a fine turno”, come si usa dire nel linguaggio tecnico». Va chiarito che nel linguaggio tecnico richiamato dai Carabinieri Forestali “il turno” è termine proprio della selvicoltura e si riferisce a foreste coetanee che vengono periodicamente tagliate a scopo commerciale dopo un intervallo (il turno appunto) definito dall’arboricoltura da legno.

E‘ un termine di stampo produttivistico, ma qui siamo in una riserva naturale e non in un bosco a sfruttamento commerciale! E siamo in un ambiente urbano ove di alberi c’è tanto bisogno. Inoltre. il turno dopo 70 anni chi lo ha stabilito? Secondo quali criteri? In natura, cioè lasciato alla libera evoluzione, il pino d’Aleppo può vivere due secoli almeno.

Quando cadde, forse per vecchiaia, il famoso pino d’Aleppo di S. Menaio sul Gargano (la cui immagine in vita è sulla Flora del Touring Club Italiano del 1958) aveva superato i 400 anni.

Lo “Zappino dello Scorzone”, un pino d’Aleppo tra S.Menaio e Peschici, mostra di aver superato circa 700 anni.

Se la logica è quella del “turno” verranno abbattuti e rimossi anche gli altri alberi di età compresa tra i 70 e gli 80 anni? Perché negare alle generazioni che verranno la possibilità di contemplare la bellezza e la grandiosità di un albero vetusto?

In un’area naturale protetta, l’ecosistema va lasciato alla libera evoluzione naturale, gli alberi devono poter divenire adulti e poi vetusti. Anche quelli “morti in piedi” vanno lasciati sul posto perché divengono dimora di nidi dei picchi e nelle scortecciature rifugio per i pipistrelli che tra l’altro sono sterminatori di zanzare. Anche i tronchi caduti a terra vanno lasciati: divengono essi stessi “ambienti” per una quantità di organismi legati ai fenomeni della biodegradazione naturale: coleotteri e invertebrati vari, funghi… e il risultato della biodegradazione dà fertilità e vita per il bosco, per la salute del suolo anche in riferimento al reticolo di ife fungine che connettono gli alberi fra loro.

I boschi sono caratterizzati da auto-organizzazione per successioni ecologiche e non hanno bisogno dell’uomo per vivere: esistono da oltre 350 milioni di anni mentre noi umani siamo apparsi, a confronto, da pochissimo tempo sullo scenario del Pianeta. Viceversa è l’uomo che ha bisogno degli alberi, per una vastità di benefici “ecosistemici” che essi forniscono, dalla purificazione dell’aria dall’inquinamento alla mitigazione del microclima locale contrastando le ondate di calore estivo e le punte di freddo invernali con l’evapotaspirazione, creando benessere fisico, psichico e psicologico con le essenze immesse nell’aria.

Questa pineta, fra l’altro, fu re-impiantata dopo la distruzione operata in passato di quella spontanea, fittissima, sempre a Pino d’Aleppo, che si estendeva lungo il litorale adriatico e sulle colline costiere fino alla foce del Vomano, come si può vedere dalle mappe antiche in cui è riportata col nome di “Silva lentisci”, la foresta del lentisco, arbusto associato ai nostri pini. Foresta la cui traccia è rimasta nei toponimi: Monte-silvano, Silvi, Pineto.

Questa nostra pineta è frutto di un autentico e corretto restauro ambientale e quando fu ricostituita, agli inizi del secolo scorso, se ne enfatizzò anche la funzione frangivento per proteggere l’entroterra più prossimo (coltivazioni, case e giardini) dagli aerosol salmastri marini.

Neppure consola il fatto che si può abbattere alberi piantandone il triplo. Infatti, perché i nuovi virgulti possano svolgere le stesse funzioni ecosistemiche e dare gli stessi benefici degli alberi abbattuti, dovranno crescere e passare 70-80 anni… e noi tutto questo tempo non ce l’abbiamo, ad esempio per contrastare la crisi climatica che richiede azioni immediate e che vede gli alberi come nostri principali alleati perché assorbitori di anidride carbonica dall’atmosfera. Il tempo conta. Così i tagli producono danni certi nell’immediato mentre la compensazione verrà tra decenni, se pure verrà.

Dal momento che la Pineta non è chiusa al pubblico, è giusto occuparsi di sicurezza ma… questo non può significare che la si ottenga eliminando alberi, così come a nessuno viene in mente di prosciugare un lago per prevenire annegamenti.

Esistono molte strategie per contemperare le esigenze di sicurezza con la salvaguardia del patrimonio forestale: delineare percorsi per i fruitori, delimitare e indicare con una segnaletica l’area attorno ad un albero effettivamente pericolante, ove proprio servisse, assicurare il tronco con tiranti, rimuovere le cause che nel biotopo favoriscono le cadute, nello specifico l’impantanarsi del suolo per l’alterazione del deflusso delle acque meteoriche e di falda oggi ostacolato.

Le motivazioni di presunta pericolosità, inoltre, appaiono francamente generiche e per nulla motivate da indagini specifiche, anche strumentali.

Ben vengano nuove piantagioni di alberi, quindi, ma se esse sono aggiuntive e non sostitutive del patrimonio storico arboreo esistente, anche perché il numero di nuovi alberelli ritenuto evidentemente cospicuo, in realtà non compensa di certo quello degli abbattimenti.

Si chiede, pertanto, che i carabinieri Forestali, eredi del glorioso Corpo Forestale dello Stato, che tanti meriti hanno avuto e continuano ad avere in questo paese, adeguino la propria visione da quella produttiva- utilitaristica o da parco pubblico urbano a quella dell’ecologia dell’ambiente che anche per legge si ritiene l’unica idonea per la gestione di una riserva naturale.

Per questo auspico che il CFS venga ri-costituito, ancora più forte, in grado di fronteggiare le attuali emergenze ambientali e che il loro riferimento e Ministero di competenza passi da quello dell’Agricoltura a quello dell’Ambiente, perché i boschi non sono soltanto un giacimento di legna, ma molto, molto di più.

Nella speranza che questa polemica sia intesa nel suo più autentico spirito costruttivo, disponibile a un confronto sereno.

Giovanni Damiani
già Direttore Tecnico di ARTA Abruzzo
Presidente di G.U.F.I. (Gruppo Unitario per le Foreste Italiane, associazione nazionale)
https://www.facebook.com/giovanni.damiani.980
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