di Antonio Del Gatto
Con la sentenza n. 12048 del 31 maggio 2011 (Pres. Miani Canevari, Rel. Filabozzi), la Suprema Corte di Cassazione ha ridisegnato i confini del mobbing.
Scrivono i giudici del Palazzaccio che "per mobbing si intende una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisico-psichico e del complesso della sua personalità".
Sulla base di tale principio la Cassazione ha rigettato il ricorso di una lavoratrice ritenendo corretta la motivazione dei giudici di Appello che avevano preso in esame l'insieme dei comportamenti del datore di lavoro, dedotti come lesivi, escludendone ogni intento persecutorio o emulativo e osservando che gli unici episodi, comunque marginali ed isolati, rispetto ai quali poteva essere espresso un giudizio di biasimo (lancio dello stipendio sul tavolo, consegna della retribuzione in un sacco di monetine), non erano sufficienti al raggiungimento della prova di un atteggiamento emarginante, discriminatorio o persecutorio nei confronti della dipendente.