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Giovedì, 04 Lug 2024

di Maurizio Sgroi*

Nei primi anni ’90, quando le crisi bancarie in Europa non erano di moda come ai giorni nostri, le cronache registrarono con sorpresa e sgomento il crack bancario che colpì la Svezia. Uno dei paesi più in salute dell’area, finì in un vortice deflazionario che mise a dura prova tutto il sistema, costringendo il governo a farsi carico di un salvataggio che si stima sia stato superiore al 3,6% del Pil.

Nel 1993 il deficit/Pil dello Stato schizzò al 12%. Il Pil si contrasse, fra il 1991 e il 1993, del 2% l’anno, i consumi privati dell’1,6% e gli investimenti del 12%. Il prezzo più caro lo pagò il mercato immobiliare, che sempre fra il 1991 e il 1993 crollò del 26,5% l’anno.

D’altronde il mattone era stato, come al solito viene da dire, il grande protagonista del boom svedese degli anni ’80.

Cos’era successo? Anche la Svezia, come gran parte del mondo occidentale, era stata investita dalla pressante ondata di liberalizzazioni del sistema finanziario partita dagli Stati Uniti. Le banche svedesi, fino ad allora pesantemente represse, sperimentarono l’euforia del credito facile a basso costo. Iniziarono a prestare senza freni, indebitandosi anche parecchio, specie all’estero, per saziare la fame di denaro della società. E quando gli svedesi non bastarono più, cominciarono a prestaresoldi anche all’estero.

Qualche numero aiuterà a capire la dimensione del fenomeno. Fra il 1985 e il 1990, il mattone crebbe del 18,2% medio l’anno, grazie anche alla disponibilità della banche a prestare fino al 100% del valore dell’immobile. I titoli azionari crebbero di valore per circa il 17% medio l’anno. I debiti delle famiglie e delle imprese aumentarono esponenzialmente, trainati dall’illusione che i prezzi degli asset sarebbero saliti in eterno.

Sempre la solita storia di boom and bust.

La bonanza finì fra il 1989 e il 1990. Anche stavolta, a innescare lo sgonfiamento della bolla fu una banca centrale, la Bundesbank, che decise di alzare i tassi per finanziare la riunificazione tedesca, provocando il terremoto dello Sme e la successiva uscita della Svezia (nel ’92), dopo che la banca centrale aveva provato a frenare il crollo della propria valuta alzando a sua volta i tassi, arrivati fino al 9%.

Dopo l’uscita dallo Sme, la corona svedese subì una pesante svalutazione che ebbe effetti devastanti sul debito estero degli svedesi. La bolla si sgonfiò ed esplosero le sofferenza bancarie, costringendo lo stato al salvataggio.

Il resto è storia.

La crisi fu superata e si trasformò in uno spettro che ogni tanto fa capolino nei peggiori sogni degli svedesi.

Sennonché oggi questo spettro ha guadagnato consistenza.

Se confrontiamo i numeri di ieri con quelli oggi, rilasciati dal recente Staff report del Fondo Monetario, le similarità sono allarmanti.

Cominciamo dal mattone. Già l’Ocse ha rilevato che la Svezia si trova in una situazione immobiliare di prezzi sopravvalutati e in crescita. Situazione molto rischiosa.

Il Fmi fa un passo avanti. Secondo le sue stime, l’immobiliare svedese è sopravvalutato di almeno il 15%, con i prezzi che sono più che raddoppiati dalla metà degli anni ’90: addirittura sono aumentati in termini reali di circa il 140% fra il 1995 e il 2007 e da allora sono rimasti stabili.

Una delle cause di questo boom è stato il blocco del settore delle costruzioni, che negli anni ’80 era stato uno dei grandi protagonisti dell’espansione degli investimenti, e che invece appare ancora sotto lo shock. L’offerta di nuove costruzioni non arriva neanche alla metà di quella dei tempi d’oro.

I costruttori, evidentemente, sognano lo spettro più spesso degli altri.

Un grafico mostra in effetti che le nuove costruzioni sono stagnanti, e ciò, a fronte di una domanda sostenuta, che ha fatto risalire i prezzi senza sosta.

Questo, per quelli che credono che il passato non influenzi il presente.

Come se non bastasse, le banche sono tornate alla grande a concedere mutui. Non più fino al 100%, come ai vecchi tempi, ma fino all’85%. Con la conseguenza che i debiti delle famiglie, in rapporto al reddito, sono schizzati al 180% del reddito disponibile.

A fine anni ’80, quando le famiglie erano pesantemente indebitate, tale percentuale non aveva raggiunto neanche il 140%.

Per trovare di che prestare, le banche svedesi son tornate a chiedere denaro all’estero, con il risultato che i fondi all’ingresso denominati in valuta straniera sfiorano il 60% del Pil, a fronte del 15% circa di fine anni ’90. Un livello mai raggiunto neanche a fine anni ’80. Con l’aggravante che tali prestiti sono spesso a breve termine e in dollari.

Tanta opulenza ha fatto gonfiare gli asset bancari, arrivati al 400% del Pil, uno dei livelli più alti al mondo il relazione alla dimensione dell’economia, l’85% dei quali concentrati in quattro banche. Buona parte di tali asset (150% del Pil) sono allocati all’estero e ciò fa della Svezia il secondo paese al mondo, dopo la Svizzera (260%) per asset esteri. Il 56% di tali asset sono nei paesi dell’area nordica.

Tutto questo fiume di denaro, come accadde all’epoca della crisi, ha avuto effetti esplosivi anche sul mercato azionario svedese cresciuto persino più del’immobiliare. Fatto 100 il livello dei titoli azionari nel 2004, a fine 2012 l’indice segnava una crescita del 75%.

Tutto questo ha avuto i prevedibili effetti benefici sul Pil, trainato in gran parte dai consumi privati, cresciuti di quasi il 2% nel 2012 (come a fine anni ’80) e dall’export.

Il saldo del conto corrente, infatti, è abbondantemente positivo. Il che implica che quello del conto finanziario sia negativo. La Svezia, infatti, è tornata di nuovo ad essere una grande esportatrice di capitali, esattamente come a fine anni ’80. Con la differenza, rispetto ad allora, che gran parte di questi prestiti sono finiti concentrati negli altri paesi dell’area nordica e in piccola parte del Baltico (circa il 4% del totale dei prestiti).

Tale dinamica è chiaramente rappresentata sul conto finanziario della bilancia dei pagamenti. Nel 2012 gli asset esteri della Svezia ammontavano a 373 miliardi di corone e il saldo finanziario era negativo per 106 miliardi. Mentre sul lato redditi delle partite correnti si sono registrati ricavi netti per 80 miliardi di corone.

Per adesso l’estero ripaga.

Ma se smettesse?

Il fatto che la Svezia non abbia nulla da temere dai Pigs, non vuol dire che non ne abbia da altri. Ognuno, evidentemente, ha i Pigs che si merita.

Nel suo caso a spaventare gli analisti sono le sorti della Danimarca, della Finlandia e della Norvegia. Tutti paesi con buoni fondamentali, per carità. E tuttavia non così buoni. La Norvegia, stima il Fmi, ha un mercato immobiliare sopravvalutato di almeno il 40%. E in Danimarca le famiglie hanno raggiunto il 300% di debiti sul reddito disponibile.

Non è così remota la possibilità che si possa innescare una contrazione. E basterebbe un default di magnitudine 10, ossia che riguardasse appena il 10% degli asset esteri in questi tre paesi, per provocare, secondo una simulazione del Fmi, un deleveraging di 57,2 punti. Vuol dire che le banche svedesi dovrebbero vendere asset fino a questo livello per mantenere il coefficiente Tier 1 al 10%. E vendere significa far crollare i prezzi. Ciò potrebbe provocare perdite per le banche fino all’8,1% del Pil.

La domanda che però inquieta gli analisti è un’altra: cosa succederebbe se improvvisamente il mercato immobiliare collassasse? L’imminenza delle azioni di rientro dalle varie exit strategy e la crisi dell’eurozona ancora in corso, rendono tale domanda talmente pressante che gli esperti si sono affrettati a fare una simulazione.

La crescita dei prezzi immobiliari è stato un altro fattore comune delle economie nordiche, con la Finlandia prima della lista. L’indice dei prezzi finlandesi, che quotava 100 a fine anni ’90, ora ha superato 200. Così come è un altro fattore comune l’alto livello di indebitamento delle famiglie, con la Danimarca in testa, come abbiamo visto.

In questa situazione, con prezzi sopravvalutati e debiti elevati, l’esplosione di una bolla è un evento assai più che probabile.

Un’altra simulazione illustra bene cosa accadrebbe in tal caso. Un declino del 10% dei prezzi del mattone potrebbe condurre alla perdita di 2,5 punti di Pil per la Danimarca, 1,9 per la Finlandia e 1,2% per la Svezia.

Poi ci sarebbero gli effetti su famiglie, banche e imprese. e anche qui ci viene in aiuto la storia. Sebbene oggi le autorità dicano che le banche svedesi hanno capienza sufficiente ad assorbire una crisi dei corsi immobiliari, l’estensione e interrelazione del sistema bancario svedese con gli altri paesi del nord fa temere l’insorgere di una pesante crisi regionale. Lo stesso fondo individua potenziali costi fiscali per eventuali salvataggi per svariati punti di Pil.

Peggio della crisi degli anni ’90.

Tutte queste simulazioni, al di là della loro attendibilità, significano solo una cosa: i vichinghi sono finiti nell’occhio del ciclone.

Il fantasma cominciano a vederlo in tanti.

socio-economic journalist*
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