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Giovedì, 04 Lug 2024

di Maurizio Sgroi*

Vecchia, ricca e solitaria. Benestante e malvivente, si potrebbe dire. Così mi sono figurato la nostra povera (ricca) Italia, dopo aver scorso con un crescente senso di tristezza le 142 pagine dell’ultimo Rapporto Bankitalia sulla ricchezza delle famiglie italiane.

Uno studio che va preso con i dovuti accorgimenti, nato com’è da autovalutazioni, ma allo stesso tempo, e proprio per questo, terribilmente serio. Perché la valutazione di ognuno di noi dice molto più sulla realtà di quanto affermino le statistiche.

Epperò alcune cose ce le dice questo studio, e molte le avrete già lette sui giornali, che vi avranno deliziato su quanto i nostri redditi medi e mediani siano diminuiti (guardandosi bene dallo spiegarvi la differenza) o di quanto ci siamo impoveriti a causa del crollo del mattone. Circostanza quest’ultima che i cortesi lettori di questo blog sanno da tempo. O magari, se proprio vi vogliono tirar su di morale, avrete letto che il numero totale delle famiglie indebitate è diminuito, peccato però che siano aumentati i poveri. L’ennesima minestra indigeribile, che lascia il solito retrogusto di fallimento sociale. Tant’è: ormai i giornali servono per aumentare la confusione, non per fare chiarezza.

Qui però vorrei tentare qualcosa di diverso. Vorrei provare a raccontarvi l’anima di questo paese che ho intravisto scorrendo queste pagine, anche se probabilmente sarà menzognera, questa rappresentazione, come tutte le cose che, piaccia o no, riguardano l’economia, che è arte di dissimulazione, di parlar a nuora perché suocera intenda, e in fin dei conti fatto politico, che nella volgarizzazione interpretata dai nostri politici viene ridotta a democratica distribuzione della marchetta.

Detto ciò vediamo. E vedendo la prima cosa che salta all’occhio è la demografia. Siamo diventati un paese di solitari. Monadi, senza neanche più l’allegria del sorriso scambiato col vicino: arroccati, arrochiti e arricchiti malamente. Per vocazione indotti alla tristezza, che sovente esonda nella rabbia esibita nei talk show, ormai specchio disarmante della scalata sociale isterica della peggiore società.

In questo lento regredire verso un’individualità soddisfatta di sé (o almeno dei propri asset) si spiega la contrazione del numero dei componenti familiari, che nel 2014 quota 2,48, quando nel 1977, quando c’era il peggio in questo Paese – l’inflazione a doppia cifra, il terrorismo e la paura della bomba – era 3,2.

Sorrido ripensando a quanta gente conosco che dice che non fa figli, né si accasa perché i tempi di oggi sono difficili. Perché si sentono precari. I teorici della convergenza europea saranno lieti di sapere che almeno in questo stiamo convergendo: la media europea dei componenti familiari è 2,3. Dobbiamo giusto divorziare un po’ di più e figliare ancor meno ed è fatta: saremo finalmente in linea con la modernità. E state pur certi che almeno in questo riusciremo.

Famiglie decimalizzate, perciò, e quindi decimate. Le statistiche ci dicono che sono 24 milioni, ma negli ultimi 35 anni le coppie con figli, che erano il 58% sempre nel terribile 1977, sono meno del 38%. Venti punti di scarto che certo non si possono spiegare con un improvviso crollo della fertilità. O forse sì: quella del cuore però. La coppia sembra il massimo sforzo che il nostro cuore di italiani, divenuto triste e solitario, riesce a concepire come limite estremo della propria egotica individualità. Ma sempre perché si può divorziare, sia chiaro. Perché la tendenza è un’altra, ed emerge con drammatica chiarezza in quel 28,3% di famiglie mono-componenti, quelle che nel ’77 erano appena il 9,6%, o in quel 8,4% in cui c’è solo un genitore a fronte del 5,6% del ’77.

Eccoci qua: finalmente un paese di single, come usa dire oggi, col solito americanismo che rende cool (rieccoci) ciò che nel passato era considerato una disgrazia: la solitudine. Una solitudine che si compiace, evidentemente.

Divertente notare, scrutando le curve, che la quota di single con meno di 65 anni quota ormai quasi quanto i single over 65, ossia quell’età in cui rimanere da soli è spesso una sfortuna, non una scelta. Quindi scegliamo di essere da soli e ci godiamo la pagnotta che ci passa la vita, temendo che non basti a sfamare altri. O, più semplicemente, perché la vogliamo tutta per noi. Ci piace così.

Alla sparizione dei figli, giocoforza, è seguita una proliferazione di anziani. E sono loro l’unica cosa che cresce in Italia: per reddito per numero, per peso specifico. Chi meglio di loro, perciò può rappresentare l’anima dell’Italia, invecchiata pure senza troppa grazia? E questo spiega molto meglio di ogni ragione economicistica il nostro declino.

Guardiamo i redditi. Pure al netto delle imprecisioni che abbiamo detto, viene fuori che gli unici che hanno visto crescere sensibilmente i redditi negli ultimi vent’anni sono proprio gli anziani, quindi i pensionati. Che sarebbe fantastico, se fossero in buona compagnia. Ma così non è.

Fra il 1991 e il 2012 i pensionati hanno migliorato la loro posizione relativa, passando dal 95 al 114% della media generale del reddito, mentre i lavoratori autonomi l’hanno vista passare dal 135 al 138%, i dipendenti sono scesi dal 115 al 109% e quelli in condizione di non professionalità da poco sotto il 90% a poco sopra.

In questo dato “professionale” si inserisce rumoroso quello generazionale: per i giovani il reddito equivalente crolla di 15 punti rispetto alla media generale fra i 19 e i 34 anni, e di 12 punti fra i 35 e i 44 anni.

Al contrario per gli ultra64enni la curva del reddito equivalente si impenna dal 2006 in poi e non accenna a diminuire neanche durante la terribile crisi, unica fra le classi di età.

La controprova arriva dal mercato immobiliare, che dal 2008 in poi ha visto diminuire la quota di persone proprietarie della casa di residenza, nell’ultimo biennio scesa dell’1,2%. I poveri giovani, disoccupati per quasi la metà del totale, non provano neanche a comprare casa.

Allora continuo a leggere. E purtroppo la malinconia aumenta perché scopro che negli ultimi vent’anni non siamo solo malamente invecchiati, scambiando l’antica saggezza dei vecchi con la roba, siamo anche riusciti a far diventare i ricchi più ricchi e i poveri più poveri.

Ecco l’Italia 2012: triste, solitaria y unequal, potremmo dire prendendo a prestito da Soriano. Ma anche il titolo originale “Triste, solitario y final” va benissimo. Forse addirittura meglio.

All’invecchiamento della popolazione ha corrisposto, in Italia, un aumento notevolissimo della concentrazione della ricchezza. Magari è una correlazione spuria, come dicono gli economisti. Però quello che vedo dalle curve mi mostra come dal 1991 in poi le uniche curve del reddito equivalente che crescono insieme sono quelle degli ultra64enni e della classe di età fra i 55 e i 64 anni. Quindi stazionano quasi parallele fra il 1998 e il 2006, e poi ripartono in salita.

Siamo un paese molto generoso con la terza età.

C’entra qualcosa con l’aumento della concentrazione della ricchezza? Non lo so. Quello che so, perché l’ho letto nello studio, è che nel 1990 il 10% più ricco della popolazione controllava il 40% della ricchezza globale. Nel 2012 ben oltre il 46%, mentre il 50%o della popolazione meno abbiente, che nel ’91 controllava oltre il 10% della ricchezza, ora si deve accontentare dell’8%. E ancora una volta si conferma quello che abbiamo già visto: il punto di svolta è stato il 1992: l’anno in cui tutto cambiò.

Lo dice anche un altro dato: dal 1991, in termini di reddito familiare medio, il numero di annualità necessarie a comprare una casa è cresciuto del 60%, da 4,2 anni a 6,6, sempre che si sia già proprietari. Perché per chi parte da zero, ossia dalla condizione di inquilino, le annualità di reddito sono pressoché raddoppiate, passando da 5,3 a 10,2, il doppio della Germania, il 30% in più della Francia. Anche qui il senso comune lascia immaginare che l’arrivo dell’euro abbia contribuito e non poco. Con la conseguenza che nel 2012 il 10% delle famiglie italiane sperimenta un disagio connesso alla spesa per abitazione, dato anche questo in rapida e drammatica crescita.

Mi figuro una parte sempre minore della popolazione, rotta a tutte le furbizie della vita e che ormai dovrebbe esser sazia e possibilmente saggia, che invece, non paga, continua a utilizzare i mezzi e le relazioni di cui dispone per continuare a sovralimentarsi. E provo una tristezza ancora maggiore osservando queste monadi ingrassate nel benessere coatto che sembrano aver smarrito qualunque senso di coesione sociale.

L’analisi della ricchezza è assolutamente coerente con quella dei redditi. La ricchezza netta familiare degli ultra64enni, che quotava un numero indice di 60 su 100 (media Italia) nel 1993 è cresciuta costantemente nel ventennio e ormai quota oltre 110, un filo sotto la ricchezza della classe d’età fra i 45 e i 54 anni, ossia quella attiva, calata costantemente, e sotto pure quella fra i 55 e i 64 anni, la più ricca di tutte (indice 140).

Per converso, e non poteva essere diversamente, la ricchezza netta della classe under 35, che partiva dallo stesso livello degli ultra64enni, nel 2012 ha raggiunto un numero indice di appena 20.

Dal 2002, poi, con l’ingresso dell’euro, la divaricazione fra i giovani e i vecchi diventa drammatica. La sensazione, magari fallace ma convincente, è che l’euro abbia consolidato la ricchezza dei vecchi e dissipato quella dei giovani che, leggo altrove, emigrano sempre più numerosi: e cos’altro potrebbero fare? Aspettare l’eredità?

In un paese vecchio e stanco come il nostro l’alternativa è che vengano adottati da qualche anziano danaroso.

Le Grandi speranze di Dickens, in versione nostrana.

Senza il lieto fine.

Socio-economic journalist*
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