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Venerdì, 05 Dic 2025

di Roberto Tomei

Fino a non molto tempo fa, la selezione della classe accademica italiana avveniva nel disinteresse generale. Era ”cosa loro”, cui la collettività restava estranea, e si svolgeva all’insegna della legge della cooptazione, cioè spettava ai professori decidere chi doveva diventare loro collega. Ancora oggi, infatti,si usa dire che il tale professore è stato chiamato da questa o quella università.

Poi, a partire dalla fine degli anni sessanta, con l’università di massa, insieme al numero degli studenti è cresciuto anche quello dei professori, che hanno cominciato così a vedere il loro potere ridimensionato. Ma il declino dei baroni, come allora i professori universitari venivano apostrofati (pare che l’illustre chirurgo Paride Stefanini, con fine ironia, si definisse non già barone ma addirittura principe, dato che, a suo dire, tutti volevano solo lui quando dovevano farsi operare), si è rivelato meno repentino di quanto l’urto del’68 e dintorni potesse far immaginare.

Certi comportamenti, soprattutto in tema di selezione degli aspiranti accademici, hanno in concreto sempre avuto la meglio su tutti i tentativi fatti per neutralizzarli, confermando così l’inanità delle misure messe in atto dai governi per inaugurare l’era della meritocrazia.

La legge della cooptazione è riuscita a resistere anche alle censure della magistratura amministrativa, chiamata soltanto a verificare la legittimità delle scelte operate dalle commissioni di concorso ma impotente a sindacarne il merito. Non è un caso che uno dei dogmi del “passato” mondo accademico recitasse che ”non si va in cattedra con i ricorsi”.

Sta di fatto che i concorsi universitari, poi denominati “valutazioni comparative” (che qualcuno ha sostenuto addirittura non essere veri e propri concorsi, dato che non si chiamavano più cosi), ora “abilitazioni scientifiche nazionali”, hanno continuato, per gli esiti cui hanno messo e mettono capo, a suscitare discussioni a non finire e sempre meno circoscritte, né ormai più circoscrivibili, all’ambito di provenienza.

L’acme (ma al peggio non c’è mai limite) sembra essere stato raggiunto proprio con le recenti “abilitazioni”, che hanno generato un vero caso, che ha travalicato i confini nazionali, e i cui echi non accennano a esaurirsi. Anzi.

Sono di questi giorni, infatti, le prime ordinanze da parte dei Tribunali amministrativi, che sono stati letteralmente sommersi di ricorsi da parte di candidati che si sono ritenuti lesi dalle valutazioni delle commissioni esaminatrici.

L’orientamento dei giudici appare univoco nel censurare l’operato dei commissari e, conseguentemente, nell’ordinare una nuova valutazione del ricorrente-candidato, da effettuarsi da parte di una diversa commissione.

E’ già accaduto per i settori concorsuali “06/E1”, “11/A4”, “12/B1” e “11/A1” e salvo altri.

Ma a breve l’effetto Tar dovrebbe investire quasi tutti i restanti settori concorsuali, con conseguenze tutt’altro che positive per l’immagine dell’istituzione universitaria italiana.

Intanto, si segnalano nuove, clamorose prese di posizione, persino da parte di premi Nobel. Di fronte a bocciature eccellenti, infatti, studiosi di tutto il mondo nelle più svariate discipline sono insorti in difesa dei colleghi italiani, che vantano lavori noti e considerati importanti Oltralpe, ma che alle nostre latitudini vengono inesorabilmente esclusi da ogni alloro accademico.

Oportet ut scandala eveniant, si diceva una volta, sottintendendo che poi, di fronte agli scandali, le competenti autorità non potranno non adottare i provvedimenti opportuni.

Stando alle sue dichiarazioni, il ministro Giannini ritiene che la complessa vicenda delle abilitazioni scientifiche nazionali richieda chiarezza.

Staremo a vedere se la politica vorrà farsi davvero carico di quella che ormai è diventata una vera e propria emergenza.

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