di Maurizio Sgroi*
Capita, viaggiando in Italia, di infilarsi in lunghissimi tunnel che attraversano ora l’Appennino, ora l’arco dei confini alpini, ora alcune collinose giunzioni fra le nostre belle regioni. Talché, sempre viaggiando, l’osservatore viene talvolta turbato dall’oscurità di questi anfratti che sembrano infiniti, misurandosi nella percezione non più col metro oggettivo della distanza, ma con quello assai più sfumato della sensazione.
In alcuni di questi tunnel poi, dove la manutenzione scarseggia malgrado i miracoli promessi dalle privatizzazioni, la luce è risorsa scarsa e i pochi neon bastano appena a celare muri scrostati e fili penduli, gettando sempre il nostro povero osservatore in uno sconforto cupo. Sarà capitato anche voi, che siete viaggiatori come tutti gli italiani, di chiedervi: ma quando finisce questo tunnel?
Ecco, questa domanda io me la faccio da un trentennio. Ossia da quando, giovane speranzoso, ancora studente ma già curioso osservatore, sentivo risuonare nelle mie orecchie i preoccupati allarmi di barbuti soloni agghindati in doppio petto e cresciuti all’ombra della spesa pubblica sulla sostenibilità del nostro debito pubblico. E la spesa corrente, e la spesa per interessi, e i tagli e i ritagli, e la spesa improduttiva e i clientelismi, blablabla.
Sono cresciuto a pane e rigorismo chiacchierone. Col risultato che ormai che si riesca a uscire dal tunnel del debito pubblico non ci credo più. Vivo una condizione psicologica, credo comune a tanti, di strutturalità della crisi del bilancio pubblico. E, come tanti, sospetto che servirà un ventennio almeno di spremitura sociale per rimediare ai guasti degli ultimi quaranta anni. Che sono una nostra precisa responsabilità, è bene ricordarlo.
Detto ciò, peggio del tunnel del debito pubblico italiano c’è solo quello dell’eurodebito pubblico nel quale ci siamo cacciati.
Ricordo bene che, negli anni ’90, i tanti entusiasti dell’unione monetaria dicevano che l’ingresso nell’euro avrebbe segnato un nuovo rigorismo, finalmente risanatore.
Ricordo bene.
Socio-economic journalist*
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