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Giovedì, 04 Lug 2024

Nella classifica dei paesi che investono di più in Ricerca e Sviluppo (R&S) troviamo ai primi tre posti Israele (4,60% del Pil), Svezia (3,55%) e Giappone (3,39%). Saranno gli investimenti per la ricerca militare o  o quelli nelle nuove tecnologie a spingere in alto? Da noi invece che succede?

Negli ultimi cinque anni, la spesa dell'Italia per Ricerca e Sviluppo – ci dice l’Anvur nel suo Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca 2013, basandosi sulla pubblicazione Main Science and Technology Indicators dell’Ocse - è stata inferiore alla media europea e a quella dei principali paesi industriali.

Infatti, essa si colloca al 19esimo posto sui 23 paesi considerati dall'Ocse, seguita in ambito Ue solo da Grecia e Polonia. Tuttavia, va rilevato che vi sono regioni italiane perfettamente allineate alla media Ue e altre, soprattutto al sud, notevolmente al di sotto.

Al risultato catastrofico, stando ai dati Istat 2010, concorre in maniera determinante la scarsa entità della spesa sostenuta dal settore privato (53,9% del totale dalle imprese e 3,6% da istituzioni non profit, mentre è il 63% nel resto d'Europa e il 68% in ambito Ocse), che va a sommarsi al finanziamento sotto la media del settore pubblico. Una situazione che si riflette sul numero e la collocazione aziendale e territoriale degli occupati nel settore. Pochi nelle imprese private (-6% rispetto alla media UE), al di sopra della media europea nel settore pubblico (dati Istat). Sotto la media al sud e in linea col resto d'Europa nel centro-nord. Il 28,8% della spesa in R&S è in carico alle università, 10,9% agli enti pubblici di ricerca e 2,8% ad altre istituzioni pubbliche di ricerca.

Nel trentennio 1981-2011 la quota di spesa in R&S rispetto al Pil è salita dallo 0,95% del periodo 1981-1985 all’1,25% del 2011. Livelli comunque, secondo l’Ocse, decisamente inferiori alla media europea (2,09% nell' Europa a 15; 1,94% nell'Ue a 28 paesi) e Ocse (2,37%).

I 25 enti pubblici di ricerca spendono, secondo la Ragioneria dello Stato, euro 2.143.230.000 (53% ascrivibili agli enti vigilati dal Miur), pari all’11% della spesa complessiva in R&S. Nel Nord, la maggior parte della spesa è effettuata dal settore privato (70% a ovest, 63% a est), al Centro è equamente tripartita tra settore privato (37,5%), istituzioni dell’Istruzione superiore (31,9%) e Istituzioni pubbliche (28,8%), mentre nelle regioni meridionali la quota del settore privato è appena il 29,9% e la quota preponderante è quella effettuata dalle istituzioni universitarie.

In media gli investimenti in R&S del settore pubblico e del settore privato si equivalgono, ciascuno  spende il 43,4% del totale, mentre il 4,2% deriva da altre fonti nazionali e il 9% da finanziamenti esteri (dati Eurostat). Tuttavia, in valori assoluti, in Italia la spesa industriale in ricerca è pari a meno della metà della media degli altri paesi europei e poco più di un terzo della media dei paesi Ocse. Anche il contributo delle istituzioni pubbliche è inferiore alla media Ue.

Il settore che investe di più in ricerca è quello dei servizi con il 27%. A seguire le industrie: aerospaziale (9,8%), elettronica (8,5%), degli strumenti di precisione (5,2%) e farmaceutica (4,8%).

Unica nota positiva è la quota di spesa per la difesa, con l'1,7%. Ancor più bassa, però, si rileva in Belgio, Grecia, Irlanda, Portogallo e Svizzera. Di contro, invece, si investe poco in programmi di ricerca educativi e sociali (4,6%) e su salute e ambiente (2,1%) così come sulla ricerca non orientata (3,3%).

Guardando al contributo dei diversi attori istituzionali scopriamo che la spesa in ricerca sperimentale e quella in ricerca applicata è in larga parte guidata dalle imprese (rispettivamente 82% e 58% del totale), mentre le università investono prevalente nella ricerca di base (63%). Le istituzioni pubbliche sembrano ormai preferire la ricerca applicata (17% della spesa) alla ricerca di base (15% della spesa), mentre continuano ad essere poco interessate alla ricerca sperimentale (6%). Il settore non profit investe soprattutto nella ricerca applicata (4% del totale della spesa) e nella ricerca di base (5,2%) e copre solo lo 0,3% della ricerca sperimentale.

Ma come è ripartita la spesa per settore disciplinare? Gli unici dati disponibili al riguardo sono solo quelli Istat (e i dati Anvur?), che però non rilevano le imprese private. Scopriamo così che metà della spesa è concentrata nei settori delle scienze naturali (31%) e delle scienze mediche e sanitarie (19%), seguono le scienze sociali (18%), le scienze ingegneristiche (15%), gli studi umanistici (11%) e le scienze agrarie (6%) e che per quanto concerne le discipline umanistiche e sociali, il grosso della spesa è effettuata dalle università rispettivamente con il 93,2% e il 77,3%, così come per le scienze ingegneristiche (61,8%) e naturali (58,5%). Discipline queste ultime che attraggono anche le istituzioni pubbliche che vi investono rispettivamente il 34,8 e 39,2% della spesa complessiva. Mentre, per le scienze mediche e sanitarie a un ruolo prevalente del sistema universitario (44,6%) si affianca una presenza importante delle istituzioni pubbliche (25,1%) e del non profit (30,4%). Le scienze agrarie, sono l'unico settore disciplinare dove la quota relativamente maggiore (57%) della spesa è effettuata dalle istituzioni pubbliche, contro un 40,7% delle università.

Ma veniamo ad un tema spesso alla ribalta, con la fuga dei cervelli che affligge l'Italia: le risorse umane impiegate nel settore della ricerca. L'Anvur prende in considerazione le rilevazioni sulle Forze di lavoro dell’Istat per il periodo 1981-2011, un trentennio in cui il personale impiegato in attività di Ricerca e Sviluppo (meno della metà sono ricercatori) pur essendo cresciuto, con solo 9,25 unità di personale a tempo pieno è ancora largamente al di sotto della media europea e Ocse, superiore in Europa solo a quello di Grecia, Irlanda e Polonia, dove però oltre l’80% del personale è costituito da ricercatori impiegati in enti ed istituzioni pubbliche. In Italia il 15,4% del personale è impiegato in istituzioni pubbliche di ricerca, l’11,3% lavora in enti di ricerca e il 4,1% in altre istituzioni pubbliche, nelle università il 32%, nelle imprese il 49,7% e negli enti no profit il 2,9%.

Dal confronto con gli altri paesi emerge il vero problema italiano: le imprese private non investono in ricerca. Infatti, hanno un numero di occupati inferiore alla media e di questi solo il 20,7% sono donne, mentre nel pubblico v'è quasi parità di genere.

Tra i sistemi di ricerca europei solo quelli di Francia, Germania e Spagna sono equiparabili al nostro essendovi un forte peso degli enti di ricerca pubblici e delle università mentre in Gran Bretagna, Svezia e Olanda pesa di più la ricerca delle imprese e le istituzioni pubbliche operano prevalentemente, se non esclusivamente, in collaborazione con l'industria.

Il confronto con enti di ricerca statutariamente analoghi ai nostri è scoraggiante. Ad esempio, l'equivalente francese del nostro Cnr, il Centre National de la Recherche Scientifique (Cnrs) pur essendo articolato in soli sette istituti (anziché un numero imprecisato di istituti come è per il nostro Cnr, un numero  ignoto anche all'Anvur che nel Rapporto dà numeri oscillanti: 100, poi 112), di cui solo tre nazionali, pesa sulla produzione scientifica nazionale per oltre il 20%, il triplo del nostro Cnr!

Così la produzione scientifica dell’Institut National de la Santé et de la Recherche Médicale (Inserm) è molto più elevata di quella del nostro lstituto Superiore di Sanità. Analogamente, in Spagna al Consejo Superior de Investigaciones Cientificas (Csic) si deve oltre l’11,3% dell’intera produzione scientifica nazionale censita da SCImago.

Tuttavia, dai dati Istat utilizzati dall’Anvur, seppure parziali, si evince che per Science Park, Ispra e Indam “la spesa in ricerca costituisce una frazione molto modesta del bilancio complessivo”.

L'Indam spende per il personale il 93,4% del proprio budget, la Stazione zoologica Anton Dohrn dedica il 47,5% delle risorse ad altre spese correnti, mentre l'Istituto Italiano di Tecnologia, che è una fondazione, destina il 23,7% alle spese in conto capitale e l'Agenzia Spaziale Italiana commissiona il 100% della ricerca a soggetti esterni, seguito dalI’Ispra con il 54,2%.

Diversamente, Inaf e Indam investono in ricerca rispettivamente il 152,4% e il 127% delle entrate di competenza, seguite da Enea con un 96,2% mentre Science Park e Ispra solo 3,2% e 6%.

I finanziamenti sono prevalentemente pubblici, ma l'Inaf riesce a farsi finanziare dall’estero il 36,1% della ricerca intra muros, mentre l'Ingv niente dall’estero. L'Ogs ottiene dai privati finanziamenti per 13,3% della ricerca svolta, invece Iit, Ingv, Indam e Ispra non raccolgono nulla dai privati.

Quanto al finanziamento di ricerche effettuate all'esterno dell'ente, in testa vi è l'Asi, che spende 270,4 mln, che restano tutti in Italia, destinati per il 71,6% a imprese private e per il 28,4% a università e altri centri di ricerca, pur partecipando per conto del Governo ai programmi dell'Agenzia Spaziale Europea (ESA).

Diversamente, il Cnr destina all'esterno 36,7 mln, di cui il 30,7% va a imprese italiane, il 20,2% a università e centri di ricerca italiani e il 49,1% all'estero. Ma è soprattutto per Inaf e Infn che nella quota di ricerche finanziate all'esterno prevalgono quelle svolte all'estero, rispettivamente per il 83,1% e il 72,8%. Analizzando la composizione del personale si scopre che Iit e Ingv hanno, con l'85,7% e il 64,7%, le percentuali più alte di ricercatori.

L’Ispra non ha ricercatori in organico, ma conta 527 tecnici (l'81,7% del personale), mentre l'Indam si avvale quasi esclusivamente di ricercatori esterni.

Quanto alla produzione scientifica in termini di pubblicazioni e brevetti, Cnr e Infn rappresentano circa il 75% dei prodotti totali, tuttavia Iit e Asi hanno performance al di sopra della media, ma, come noto, per quest'ultima l’attività di ricerca viene svolta quasi esclusivamente all'esterno dell’ente.

L’Inaf, in rapporto al numero di ricercatori, ha il numero più elevato di prodotti indicizzati SCImago.

Quanto alla produzione scientifica in termini di pubblicazioni e brevetti, Cnr e Infn rappresentano circa il 75% dei prodotti totali, tuttavia Iit e Asi hanno performance al di sopra della media, ma, come noto, per quest'ultima l’attività di ricerca viene svolta quasi esclusivamente all'esterno dell’ente.

L'Inaf in rapporto al numero di ricercatori ha il numero più elevato di prodotti indicizzati SCImago. La quota più elevata del conto terzi sul finanziamento totale della ricerca la consegue l'Inrim, al Cnr sono riconducibili 39.874 prodotti indicizzati SCImago 2013, 389 diritti di proprietà industriale, 185 brevetti, 29 spin-off, 1 incubatore di imprese, 9 consorzi, 4 poli museali (battuto dall'Inaf che ne ha 11) e 89 altre attività di terza missione, ossia non riconducibili al conto terzi.

In Italia dalla seconda metà degli anni 2000 i finanziamenti pubblici alla ricerca sono fermi. Secondo gli ultimi dati Eurostat, nel 2011, la spesa per la ricerca in Italia era così ripartita: 8,5 miliardi di finanziamenti pubblici (di cui 65% erogati dal Miur, 15% dl Ministero della salute e 8% Misvec), 8,9 miliardi dal settore privato, 1,8 dall’estero e 0,6 dal settore non profit.

Come noto, i finanziamenti pubblici vengono stabiliti soprattutto dal Programma Nazionale di Ricerca (PNR), che il Miur dovrebbe redigere - dopo aver consultato la comunità scientifica e accademica, le forze economiche e le amministrazioni competenti - anche sulla base degli obiettivi fissati nel Documento di programmazione economica e finanziaria.

La gran parte della spesa sostenuta dal Miur è destinata a finanziare gli enti di ricerca vigilati dallo stesso dicastero,  mediante il FOE (Fondo Ordinario per il finanziamento degli Enti e istituzioni di ricerca) che nel 2013 ha avuto una dotazione di 1.739.745.077 euro (-2,2% rispetto al 2011), comprensiva del finanziamento premiale, che vien distribuito tra gli enti in base a criteri di “merito e qualità” (121.922.155 euro) e degli importi destinati alle assunzioni per chiamata diretta di ricercatori dotati di altissima qualificazione scientifica (1.613.045 euro).

A Cnr e Asi va il 65% del fondo, seguiti da Infn e Inaf e dagli altri enti. L' 8% del Foe viene destinato ai “progetti bandiera”, strategici per lo sviluppo del Paese.

Per l’anno 2013 sono stati stanziati per gli enti di ricerca vigilati dal MIUR euro 1.739.745.077.

Quanto ai finanziamenti europei, che solo in parte vanno a progetti che vedono coinvolti enti di ricerca pubblici, l'Italia per ogni euro di contributi versati all'Ue ne “recupera” 0,65, decisamente poco rispetto allo 0,94 della Germania e allo 0,86 della Spagna. Ma la parte del leone nell'accaparrarsi i fondi, e in misura superiore al versato, la fanno Regno Unito e Olanda, che ottengono rispettivamente il 70% e il 112% più del loro effettivo contributo.

Eppure, a livello di pubblicazioni e di citazioni, l'Italia si colloca subito dopo Olanda, Svezia, Regno Unito, in linea o a livello superiore della Germania per le Scienze matematiche e fisiche, nelle Scienze della Terra e nelle Scienze mediche, tra i settori bibliometrici, e nelle Scienze delle decisioni, nelle Scienze economiche e finanziarie e in Psicologia, tra i settori non bibliometrici.

Le realtà italiane che si posizionano tra le prime cinquanta per quantità di finanziamenti attratti sono cinque (fonte Eurostat): il Consiglio Nazionale delle Ricerche (settima posizione) con oltre 214 mln di euro, il Centro Ricerche FIAT (23), l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (35), l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (40) e l’Istituto Italiano di Tecnologia (43). Va evidenziato però che nei progetti Erc che vedono coinvolti gli enti di ricerca dei diversi paesi, gli italiani che partecipano sono i più numerosi. Peccato però che le ricerche si svolgano in altri paesi.

Gli enti di ricerca italiani sono poco attrattivi come sede di ricerca, tant'è che solo 24 ricercatori stranieri li  scelgono.

Nel periodo 2004-2010, l’Italia mostra una produzione scientifica e un impact factor al di sopra della media Ue, Ocse e mondiale nelle scienze matematiche e informatiche, fisiche, della terra e mediche; nella media  per le Scienze biologiche e al di sotto per tutti i rimanenti settori. La quota di pubblicazioni nella fascia di eccellenza del top 10% invece è risultata inferiore a quella di tutti i principali paesi europei.

Nelle aree non bibliometriche (Psicologia, Economia, Econometria e Finanza, Scienze sociali, artistiche, umanistiche, manageriali e decisionali), se si utilizzano i vari indicatori emerge che per quantità di pubblicazioni e andamento dell’attività eccellono le scienze decisionali (management dei sistemi informativi, scienza manageriale e ricerca operativa, statistica, probabilità e incertezza), mentre se si considera per impatto citazionale sono le scienze artistiche e umanistiche ad eccellere pur se in una posizione non proprio brillante nello scenario mondiale.

In tutte le aree si fa un prevalente ricorso a collaborazioni internazionali e a lavori a più firme.

Comunque, emerge un dato positivo: la ricerca scientifica di base, che genera in maniera prevalente le pubblicazioni scientifiche, è in larga parte effettuata nel settore pubblico, collocandosi nel 2010 al di sopra dei valori registrati nei principali paesi europei (fatta eccezione che per il Regno Unito) e mondiali. Peccato però che all'alto numero di pubblicazioni non equivalga un analogo livello di citazioni sulle principali riviste.

A monte c'è un problema di accreditamento degli italiani o una barriera linguistica? Non è dato sapere.

Va detto che nel suo Rapporto, Anvur sciorina dati e tabelle spesso contraddittori tra loro.

Per esempio, scrive che il personale mediamente impiegato è di 8,6 unità, ma poi presenta una tabella OCSE in cui v'è scritto 9,25, oppure, scrive prima che gli istituti del Cnr sono 100 poi 112. Usa prevalentemente dati Istat vecchi di 4 anni, relativi al periodo 2006-1010, appena più puntuali quando si tratta di enti vigilati dal Miur. Analizza solo 15 enti di cui 10 vigilati dal Miur.

Allora sorge nuovamente la domanda che ci siamo posti nell'articolo dello scorso 15 aprile: ma serve un ente apposito per monitorare la ricerca e l'università se poi questo non è in grado neppure di rilevare il numero di persone impiegate in questi settori?

E quanto costa ed è utile alla collettività un Rapporto come quello dell'Anvur, composto di 615 pagine, che ha richiesto il lavoro di chissà quanti collaboratori?

E' utile un'analisi siffatta rispetto all'universo della ricerca italiana, considerato che essa esamina solo parte degli enti di ricerca, limitandosi a quelli vigilati dal Miur, e che soltanto per l’università fa la Valutazione della qualità della Ricerca (VQR), dei lavori conto terzi e delle attività di terza missione? (3 - fine)

Articoli precedenti:

15 aprile 2014 e 6 maggio 2014

 

 

 

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