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Giovedì, 04 Lug 2024

altRipenso a Vasco Rossi e alla sua vita spericolata mentre leggo un recente intervento di Már Guðmundsson, governatore della banca centrale islandese (“Cross-border banking – where do we stand?”) e ovviamente mi stupisco nel rilevare assonanze fra due modelli di vita che sembrano agli antipodi: la vita di un rocker e quella di un banchiere che lavori su scala internazionale.

Eppure, proprio come Vasco, il banchiere globale, non dorme mai e ha una vita piena di guai che prima o poi è chiamato a risolvere. O che magari risolverà qualcun altro. Esattamente come un rocker, il banchiere convive con l’ala della disgrazia al suo fianco, vicino ai facili e inebrianti guadagni che la sua professione può procurargli, perfetta conseguenza dei rischi morali, se non addirittura mortali, che continuamente corre.

Penserete che esagero. Che è tipico di un mio certo divagare associare un cantante spericolato a un banchiere compassato. Eppure, vedete: al di là della forma e dell’abbigliamento, del pantalone di pelle griffato del primo a di quello di alta sartoria del secondo, quello che accomuna questi due personaggi della nostra attuale commedia umana è il rischio. Rischiano grosso.

Il mestiere di banchiere, infatti, è per sua natura estremamente rischioso. E le nostre società ci hanno messo secoli per imparare a contenerlo. Pensate solo a cosa significhi, in un modello di banca che prevede la riserva frazionale, dover far fronte ogni volta al problema che i banchieri chiamano della maturity e della transformation che implicano un costante rischio di liquidità.

Esemplifico per quelli che, come me, non fanno di mestiere il banchiere. Una banca prende a prestito una certa somma, che per essa rappresenta un debito a breve termine, a volte addirittura a vista, e lo investe in prestiti, che sempre per essa sono crediti, a medio-lungo termine. Un bravo banchiere riesce sempre a sincronizzare i suoi pagamenti. Che significa che è in grado di far corrispondere gli incassi dei prestiti che ha concesso con le uscite dei prestiti che deve restituire, riuscendo persino a farci dei profitti. Per riuscire nell’impresa deve essere quindi in grado di gestire opportunamente la maturity e la transformation delle sue obbligazioni.

Lo aiuta il fatto che non deve accantonare una somma pari a quella che ha preso a prestito, prima di prestare a sua volta, ma solo una frazione di essa a mo’ di riserva (riserva frazionale). Ciò implica che in ogni momento, vuoi per una crisi di fiducia, vuoi per un problema nella tempistica dei pagamenti che la banca fa e riceve, la banca si possa trovare letteralmente a secco. Mancare di liquidità.

Le banche centrali sono nate apposta per svolgere il ruolo di prestatori di ultima istanza, ossia di fornitori di liquidità, proprio per evitare che una banca magari sana ma incappata in un brutto momento fallisca. E neanche questo è bastato.

L’esperienza degli anni ’30 del XX secolo ha mostrato come basti poco per innescare un bank run, ossia una corsa agli sportelli. Sicché gli stati, che sono i prestatori di fiducia di ultima istanza delle banche centrali, ossia dei prestatori di liquidità di ultima istanza, hanno ritenuto di elaborare la normativa di assicurazione dei depositi per garantire a certe categorie di risparmiatori il rimborso dei loro depositi in caso di problemi finanziari di una banca.

Questi processi hanno impegnato secoli. Ma adesso siamo tornati sostanzialmente al punto di partenza. Le banche internazionali, il cosiddetto cross-border banking, ricordano per certi versi le vecchie banche ottocentesche, tanto redditizie quanto pericolose e fragili. E ciò spiega bene perché i regolatori di mezzo mondo siano al lavoro per capire in che modo replicare per via internazionale ciò che è stato fatto a livello nazionale.

La domanda del banchiere islandese, perciò, a che punto siamo con il cross border banking, riveste un indiscutibile interesse.

Un paio di esempi aiutano a focalizzare il problema.

All’inizio della crisi finanziaria del 2008 l’eurozona mostrava un current account pressoché in equilibrio, tuttavia pochi avevano notato che le banche europee avevano costruito grosse posizioni denominate in dollari che hanno provocato scompensi in termini di maturity dopo il crack Lehman, quando ci fu una fuga dal dollaro che diminuì notevolmente il valore di questi asset. In sostanza le banche europee si trovarono spiazzate in conseguenza della perdita di valore degli asset denominati in dollari, che misero a rischio la loro capacità di ripagare le uscite.

Circostanza simile si verificò per le banche islandesi, i cui asset quintuplicarono fra il 2003 a la metà del 2008, portandosi a dieci volte il Pil. Gran parte di questa esplosione fu possibile proprio in virtù dei prestiti cross border. “Ciò fu facilitato – spiega – dalla membership dell’Islanda con l’area economica europea, quindi Ue, Lichtenstein e Norvegia, che rese possibile l’acquartieramento di banche islandesi in tutta la regione, e poi anche in virtù delle condizioni globali del credito, abbondante ed economico“.

Tanto è vero che, prima del crollo, le banche islandesi avevano asset in valuta straniera per quasi 7,5 volte il Pil, “con un significativo disallineamento della maturity fra asset e debiti”, mentre la banca centrale islandese aveva riserve complessive pari al 21% del Pil.

Dopo il crack Lehman, nell’autunno 2008, il panico provocò una fuga generalizzata dai debiti denominati in valuta estera, che non degenerò in un crack generalizzato del sistema solo perché la banca centrale islandese poté contare su diversi accordi di swap in dollari che impedirono l’essiccarsi della liquidità. In sostanza, furono condotte una pluralità di quelle che si chiamano LOLR operation, dove l’acronimo sta per Land of last resort, ossia restatori di ultima istanza. Per chi non lo ricordasse, gli swap sono sostanzialmente prestiti a breve termine.

In sostanza, i disallineamenti di maturity hanno generato un rischio di liquidity, che è stato gestito con operazioni di LOLR a livello nazionale e globale, con la Fed nel ruolo di grande fornitrice di liquidità. In un certo senso, la banca centrale americana è diventata la prestatrice globale di ultima istanza.

Basta ricordare che a dicembre 2008 gli swap in dollari avevano raggiunto il picco di 580 miliardi.

Tale esperienza non implica, nota il banchiere, che abbiamo risolto il problema delle operazioni di finanziamento cross border. “Intanto – spiega – perché ci sono varie perplessità sull’utilizzo degli swap quale strumento permanente di gestione e prevenzione delle crisi”. Secondo punto dirimente è che la crisi ha dimostrato il sostanziale fallimento del “safety net”, ossia di quella complessa ragnatela di meccanismi che avrebbe dovuto, da un parte, prevenire l’azzardo morale nelle operazioni cross border, e al contempo assicurare protezione, potendo contare su istanze regolatorie e swap d’emergenza.

A proposito di swap, il banchiere ragiona anche di come si potrebbe/dovrebbe arrivare a una sorta di loro istituzionalizzazione che, almeno in teoria, dovrebbe passare dal Fmi che al momento dispone di circa un trilione di dollari di capacità di prestito, di solito però orientato a medio lungo termine, ma non della rapidità ed elasticità di una qualunque altra banca centrale nella gestione di questi fondi. Quindi occorrerebbero delle modifiche sostanziali per fare del Fmi l’autentica banca centrale mondiale che tanti preconizzano debba diventare. “Ma questo non è molto probabile, in futuro”, ammette il nostro banchiere.

Che fare dunque? In punta di principio la risposta è semplice: l’azione del mercato e il contesto pubblico di riferimento devono essere meglio allineati. “Ciò può avvenire attraverso due canali – spiega – o attraverso una riduzione delle operazioni bancarie transfrontaliere in modo che le reti nazionali di sicurezza dei grandi paesi siano sufficienti, o attraverso l’espansione internazionale di reti di sicurezza”.

Il solito vecchio dilemma fra squilibrio o depressione, insomma. Atteso che minor prestiti transfrontalieri implicano meno opportunità di business e più prestiti più rischi.

Ovviamente il nostro banchiere, che ben conosce i vantaggi di una vita spericolata, ha le sue preferenze. “Dobbiamo sperare – dice – che l’estensione del contesto pubblico, attraverso una cooperazione internazionale e regionale, sia una parte della storia”. Ma quel che è certo è che i progressi devono essere fatti a tutti i livelli: nazionali, regionali, internazionali.

Insomma, par di capire che l’unica ricetta sia la cooperazione, anche se molti vorrebbero semplicemente tornare indietro (ma è difficile in un mondo dove i capitali circolano liberamente), altri procedere per conto proprio e altri ancora stringere a livello globale le maglie della regolazione.

E i passi avanti che si sono compiuti finora – si pensi all’Unione bancaria nella zona euro, o ai piani di integrazione bancaria nella regione Asean – lasciano credere che i banchieri centrali abbiano ben chiaro il percorso, ricordando che “una unione monetaria senza una unione bancaria è potenzialmente molto rischiosa”.

Ed ecco che il rischio torna a far capolino e con esso la “maledizione” della vita del banchiere, che deve correre i rischi, ma non riesce a farseli piacere.

I rocker, da questo punto di vista, sono un filo meno ipocriti.

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