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Domenica, 19 Mag 2024

altAlla fine l’Esposizione Universale, il cui tema per il 2015 è “Nutrire il pianeta, Energia per la vita”, dopo inchieste e arresti, il 1° maggio scorso è partita. Sono 147 gli Stati e 3 le organizzazioni internazionali partecipanti. Quanto ai visitatori e ai biglietti venduti, ad oggi non è dato saperne il numero.

Obiettivo dichiarato della “Carta di Milano”, il suo manifesto, è dare un “contributo all’educazione alimentare e all’uso delle risorse preziose del pianeta”. Intento nobile, non fosse poi che è smentito da varie circostanze. A partire dal fatto che tra gli sponsor e i partecipanti vi sono “rappresentanti del diavolo assieme a quelli dell’acqua santa”: dal Mc Donald alla Coca Cola (tra i principali sponsor), alle grandi multinazionali del cibo industriale, inclusa la Monsanto, per arrivare alle esperienze territoriali di prodotti tipici locali ottenuti con procedure sostenibili.

Così come lascia perplessi il metodo utilizzato: di fronte ad una crisi economica formidabile su scala globale, anziché perseguire una decorosa sobrietà, l’allestimento dei padiglioni ricalca ancora una volta la volontà di sperpero, di esibizione di potenza, nel solco e ad imitazione della grandeur che portò, nell’esposizione universale di Parigi nel 1889, alla costruzione della torre Eiffel.

Se la Tour è ancora lì, qui chissà che fine faranno i padiglioni. Ma non basta, per costruire l’Expo milanese, è stato seppellito sotto una coltre di cemento e asfalto, almeno un milione di metri quadri di pregiato suolo agricolo. Una risorsa sostanzialmente non rinnovabile, dal momento che, se “ucciso” nella sua componente microbica vitale responsabile della fertilità, anche se fosse in futuro decorticato e bonificato, impiegherebbe circa 500 anni a ripristinare le condizioni iniziali di produttività naturale. Considerando le rese agricole correnti, con metodi naturali, quel terreno avrebbe potuto fornire a ciascun abitante di Milano 600 grammi di fagioli all’anno o, in alternativa, 4 kg di patate buone, e tutto a filiera cortissima e per sempre.

C’è poi un’altra domanda da porsi: può il sistema industrialista/occidentale della filiera del cibo, dalla produzione all’imballaggio, trasporto, intermediazioni, finanza, vendita al consumo … riformare sé stesso, in direzione opposta ai propri interessi speculativi, capitalistici costruiti e consolidati,  su cui ha investito per decenni?

Il cibo, come ogni altra cosa, oggi è considerato innanzitutto (e solo) una merce, tanto che ha assunto nel tempo come suo principale motore di consumo la pubblicità per la quale, a livello globale, si stima vengano investiti ogni anno 700-720 miliardi di dollari (erano 216 nel 1980). Questo dà l’idea della posta in gioco e dell’impossibilità di una autoriforma del sistema.

Ma che significa oggi “nutrire il Pianeta”? I dati ufficiali della FAO ci dicono che 820 milioni di esseri umani nel mondo soffrono la fame e che questa miete vittime. Uno sterminio inaccettabile ed umiliante. Ma gli stessi dati ci dicono anche che la superficie agricola è di 4,5 miliardi di ettari fertili è produce cibo più che sufficiente per alimentare adeguatamente tutti gli abitanti del Pianeta se il cibo fosse equamente ripartito e se non esistessero catene industriali dello sperpero (selezione dei prodotti per soddisfare la vista e per la loro standardizzazione negli imballaggi, trasporti incredibili di frutta da una parte all’altra del globo terrestre a seconda dell’andamento dei mercati finanziari, scadenze dei prodotti spesso fittizie, scarti di produzione ecc..).

Insomma, ogni abitante di questo mondo potrebbe disporre di alimenti per 5000 calorie giornaliere, più che sufficienti per vivere benissimo, in quanto corrisponderebbero a ben 8 piatti di pasta e fagioli al giorno, solo per fare un esempio. La FAO stima la produzione annua attuale dei cereali in 2,4 miliardi di tonnellate, più del doppio di quanto sarebbe necessario per sfamare tutti gli abitanti del mondo con pasta, riso, pane, biscotti ecc. Se poi consideriamo l’ammontare della produzione di uova, verdure, formaggi, oli alimentari, frutta et similia, i dati ci suggeriscono che sarebbe opportuno ridurre la produzione di cibo, perché se equamente diviso, garantirebbe a ciascun essere umano una dieta ipercalorica e il sicuro sovrappeso.

Se respingiamo la bugia che per “Nutrire il Pianeta” bisognerebbe aumentare le produzioni alimentari e, magari, far ricorso agli organismi geneticamente modificati (OGM), o ad un maggior impiego di prodotti chimici, vediamo che il problema della nutrizione è determinato essenzialmente dall’assetto politico mondiale attuale che ha connotati criminali, dall’ingiustizia sociale, ed è aggravato dalla globalizzazione dei mercati e dalla destabilizzazione del clima.

Un altro risultato del modello di sviluppo industrialista basato sui combustibili fossili, le cui emissioni stanno provocando l’avanzata dei deserti e l'aumento della siccità in ampie zone geografiche e, viceversa, in altre, il moltiplicarsi di eventi estremi quali tornado, piogge devastanti, frane, erosione dei suoli fertili. Eventi che in poche ore cambiano il paesaggio e che solo nel Pacifico e nel Bagladesh hanno creato in pochi anni oltre 35 milioni di profughi ambientali. Gente che ha perso tutto, tranne la vita … almeno per ora.

Per un futuro sostenibile e per una riforma radicale dello stato di cose presenti la speranza deve essere riposta, quindi, nelle  azioni esterne al sistema industrialista, fatte di pratiche alternative a livello quanto più possibile di massa e di pressioni del mondo dell’associazionismo. Forse una vaga inconsapevole percezione di questo è alla base del fenomeno in crescita esplosiva, di coloro che hanno preso a coltivare un orto, anche in ambiente urbano.

In occasione dell’Expo, oltre 40 organizzazioni italiane - operanti in diversi settori (cooperazione allo sviluppo, ambiente, diritti umani, produzione biologica, consumo critico) - stanno collaborando per provare ad influenzare il dibattito pubblico con un’idea alternativa.

Per  inserire  i temi della sovranità alimentare e della giustizia ambientale, hanno dato vita ad un processo che hanno chiamato “Expo dei Popoli” ed hanno elaborato un Manifesto sulle soluzioni da mettere in campo per vedere finalmente riconosciuti e garantiti il diritto ad un’alimentazione adeguata e un uso equo e sostenibile delle risorse naturali. Le proposte appaiono talvolta generiche, tuttavia, possono avere un valore simbolico e costituire una base utile per le successive azioni sul tema.

Le condizioni per mettere in discussione il modello attuale di alimentazione, oramai, ci sono ovunque. La novità è che esse risiedono sia negli interessi primari delle popolazioni dei paesi a basso o bassissimo reddito, sia in quelle in via di sviluppo che in quelle storicamente ricche. La necessità di cambiamento investe tutte le aree geografiche, anche se con pesi diversi.

Vi sono ben 9 milioni di persone denutrite, anche nei paesi ricchi, molti sono bambini, per colpa delle accresciute differenze di classe dovute alla crisi economica.

Negli USA, per la prima volta dal 1850, l’aspettativa di vita va rallentando vistosamente a causa della crescita delle patologie legate a obesità, squilibri alimentari, cibo spazzatura e sedentarietà: tumori, allergie e, soprattutto, cresce la percentuale di popolazione affetta da diabete e malattie cardio-vascolari.

“Stiamo attraversando il primo periodo nella storia dell’umanità in cui ci sono più persone in sovrappeso che denutrite”, scrive Paolo Vineis (in Salute senza Confini - epidemie al tempo della globalizzazione -ed. Codice, 2014). Un tipo di malnutrizione che affligge anche il nostro Paese, pur se in misura minore rispetto ad altri, grazie alla disponibilità di prodotti locali di qualità e alla tradizionale dieta mediterranea.

Ma la criticità più forte è quella collegata al deterioramento del clima, argomento che non è al centro della discussione dell’Expo né delle politiche nazionali e locali, nonostante richiederebbe una risposta immediata, un Piano Marshall. La crisi climatica non si combatte con la politica dell’austerità, ma richiede interventi pubblici e priorità d’azione. Invece, troppo spesso, vediamo impiegate risorse preziose per opere pubbliche onerose, ambientalmente devastanti, ma dichiarate “indifferibili ed urgenti”.

Le principali minacce globali alla produzione degli alimenti sono oggi: il capitalismo finanziario, l’austerity e l’ideologia di una crescita economica illimitata se affidata al libero mercato. La situazione, viceversa, necessita di investimenti pubblici mirati all’abbandono immediato dei combustibili fossili (petrolio e carbone)  il cui uso ha provocato danni ingentissimi: in Italia, stimabili negli ultimi anni in circa mille miliardi di euro all’anno tra alluvioni, frane, perdita di suoli per erosione, perdita di raccolti per motivi meteorologici e per infestazioni parassitarie.

Si pensi, ad esempio, a cos’è successo nel 2014 nel settore oleario, in tutto il Mediterraneo. Il clima che cambia porta malattie nel regno vegetale, negli agrosistemi, ma anche nel regno animale e nelle popolazioni. Il contrasto al deterioramento climatico può dare certezze, far uscire dalla miseria la gran parte dell'umanità.

La questione del cibo risiede, in definitiva, nel rilancio, su basi rivoluzionate, di solidarietà ed equità, delle economie locali, andando ben oltre la politica di “mitigazione” e di “adattamento” dell’ONU e dell’Unione Europea.

Ma c’è un argomento, che riguarda anche il cibo e di cui non si parla all'Expo, che pure intende rivoluzionare la nostra vita e la nostra economia: il Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip), per il quale sono in corso trattative tra UE e Stati Uniti, al fine di costruire tra loro mercato unico per merci, investimenti e servizi.

Un accordo di cui non sanno nulla, neppure i parlamentari, i media devono evitare di pubblicare notizie, pena l'accusa di spionaggio internazionale. Renzi ha solo accennato al TTIP dicendo che “non è semplicemente un accordo di libero scambio come altri … ma è un accordo di libera scelta; direi … culturale”.

Ma cosa prevede effettivamente questo accordo?

L’obiettivo è il libero scambio tra Europa e Nord America con l’abolizione dei dazi doganali e uniformità dei regolamenti dei due continenti, in modo da non aver più alcun ostacolo alla libera circolazione transatlantica di merci, investimenti e gestione dei servizi.

Tra gli argomenti del trattato vi è: “l’accesso al mercato per i prodotti agricoli e industriali” oltre agli appalti pubblici, gli investimenti materiali, l’energia e le materie prime, le norme regolamentari, le misure sanitarie e fitosanitarie, i servizi, i diritti di proprietà intellettuale, ed altro ancora.

Il problema è che la mediazione con la normativa vigente negli USA, assai più blanda di quella Europea e di quella italiana in materia di sicurezza alimentare, produrrà inevitabilmente un allineamento al ribasso con ricadute disastrose sulla qualità di prodotti e servizi.

Negli Usa, ad esempio, è possibile coltivare prodotti Ogm, utilizzare ormoni nell’allevamento di animali, la sterilizzazione chimica dei volatili, non è riconosciuta la denominazione d’origine controllata e la dichiarazione di provenienza del prodotto. Sarebbe così possibile commercializzare il Montepulciano d’Abruzzo prodotto in Texas, lo Zafferano di Navelli coltivato nel Montana e denominare Parmigiano reggiano qualsiasi formaggio duro.

Diverrebbe possibile privatizzare l’acqua, la sanità, l’istruzione e cioè snaturare il complesso dei beni comuni e del welfare.

In definitiva, è in pericolo il nostro più elevato livello di sicurezza e qualità del cibo.

In conclusione, questo  capitalismo non è più sostenibile. Non è possibile prendere, sequestrare e sperperare a vantaggio di pochi più risorse di quanto il Pianeta sia in grado di rigenerare ….n é di buttare più rifiuti di quanto i sistemi ecologici riescano a metabolizzarne.

Se oggi volessimo davvero salvarci dal peggio, dovremmo affrontare tagli così significativi alle emissioni da mettere in discussione la logica fondamentale della nostra economia: la crescita del PIL come priorità assoluta.

Naomi Klein dal Canada (Solo una rivoluzione ci salverà, ed. Rizzoli 2015) avverte "Non abbiamo intrapreso le azioni necessarie a ridurre le emissioni perché questo sarebbe sostanzialmente in conflitto con il capitalismo deregolamentato, ossia con l'ideologia imperante nel periodo in cui cercavamo di trovare una via d'uscita alla crisi. Siamo bloccati perché le azioni che garantirebbero ottime chance di evitare la catastrofe - e di cui beneficerebbe la stragrande maggioranza delle persone - rappresentano una minaccia estrema per quell'élite che tiene le redini della nostra economia, del nostro sistema politico e di molti dei nostri media."

La via d'uscita non è una Green Economy all'acqua di rose, ma una trasformazione radicale del nostro stile di vita, dell’economia e delle istituzioni … e questa non è certamente la strada imboccata dal nostro Paese a guida renziana.

La crisi economica, che tanta sofferenza produce, può essere una straordinaria opportunità perché ci pone la necessità storica di avviare ora il cambiamento necessario, la conversione ecologica degli stili di vita e del produrre, che nulla hanno a che fare con i lustrini e gli effetti speciali dell

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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