Democrazia, insegnano i maestri, non è solo governo del popolo ma anche governo davanti al popolo. Insomma, la Res publica deve essere quanto più possibile trasparente, quasi una casa di vetro.
Se a tutto questo aggiungiamo l'esigenza, molto sentita dai politici, di avere visibilità, ci rendiamo facilmente conto di come e quanto i cittadini siano esposti a un vero e proprio martellamento di notizie provenienti dal Palazzo, dove chi ha più polvere spara.
Avendone tanta di sua, anche il governo fa la propria parte, nella comprensibile speranza di perpetuarsi al potere.
Fin qui, niente di cui meravigliarsi. Non ci si può non stupire, invece, di come talune scelte, promesse come certe, lasciando da definire soltanto le specifiche modalità di attuazione, vengano poi improvvisamente cancellate dell'agenda di governo.
Tra le tante, una: la flessibilità dell'età per andare in pensione, tematica che ci ha accompagnato per tutta l'estate, se non da prima ancora, e che i governanti hanno ripetutamente affermato di voler affrontare e risolvere nella prossima legge di stabilità.
Ebbene, da qualche settimana a questa parte, sempre gli stessi governanti hanno laconicamente fatto sapere che non se ne farà più niente e che, forse, se ne riparlerà nella legge di stabilità del 2018.
Anche se si era sbilanciato meno dei suoi ministri e del presidente dell'INPS, anche Renzi aveva detto che era giusto che le nonne si godessero i nipotini, lasciando chiaramente intendere che la questione era all'attenzione del governo, che senz'altro avrebbe preso una decisione in merito. E i vari Poletti, Damiano e Boeri, tanto per citare gli attori principali, si erano spinti fino al punto di fare diverse ipotesi di penalizzazioni.
A parte le meno sensate e che non avrebbero incontrato il consenso dei lavoratori, come quella di mandare tutti in pensione col metodo contributivo, le più note sono state quella del 2 per cento per ogni anno di distanza dalla pensione (per chi avesse compiuto 62 anni di età) e l'altra delle penalizzazioni variabili, a seconda della maggiore o minore distanza dalla data di uscita dal mondo del lavoro fissata dalla legge Fornero, che ha abolito il precedente limite dei 40 anni di contributi.
La riforma di questa legge, soprattutto, veniva sbandierata come una necessità per dar luogo alla c.d. staffetta generazionale, vale a dire escono i padri per far posto ai figli, sicché si era creata una diffusa attesa da parte un po' di tutti, sia vecchi che giovani.
Ora questa necessità improvvisamente non c'è più e, stando alle ultimissime dal Palazzo, una schiera di tecnici starebbe valutando una ipotesi di pensionamento anticipato a 63 anni, e almeno 35 o 30 anni di contributi, con penalizzazioni del 3-4% fino a un massimo del 10-12% per il periodo mancante al raggiungimento della soglia di vecchiaia dei 66 anni, che riguarderebbe, però, solo tre specifiche categorie di lavoratori: “esodandi” al di fuori delle “salvaguardie” già scattate, disoccupati over 62 sprovvisti di ammortizzatori sociali e donne, magari dando la priorità a quelle con figli.
Che dire?
Forse gli italiani hanno a che fare con un governo che sempre più spesso fa sfoggio di teatrocrazia, se non addirittura di teatrinocrazia.
P.S. In questi ultimi giorni il governo sembra orientato ad abolire l'Imu per tutti, provvedimento assolutamente inegualitario, ma che dimostrerebbe, se attuato, che i soldi quando si vuole si trovano.
Con buona pace della staffetta generazionale.