Un articolo della scorsa settimana sul valore da attribuire, nei concorsi universitari, alle pubblicazioni in collaborazione ha destato particolare interesse nei lettori, suscitando diversi commenti.
Comunemente considerate di minor pregio rispetto ai lavori monografici, le pubblicazioni in collaborazione sono solitamente accompagnate, all’inizio o alla fine, da un’avvertenza, con l’attribuzione delle singole parti agli autori, così da poterne desumere gli specifici apporti, pur nell’ambito di un lavoro ideato e realizzato insieme.
Nel caso sottoposto, all’esame dei giudici, che appunto su di esso si sono pronunciati (sentenza n.11339 del 22 settembre scorso della III sezione del Tar Lazio), un tale accorgimento, cioè la distinzione degli apporti, non era stato adottato dagli autori (in prevalenza due, in alcuni casi più di due).
Per i giudici amministrativi, che si sono basati anche sulla giurisprudenza del Consiglio di Stato, peraltro espressamente richiamata, tale circostanza non sarebbe stata foriera di conseguenze di rilievo, dovendosi presumere l’apporto di ciascun autore come paritetico ed equivalente.
E tutto ciò in conformità alle caratteristiche del settore disciplinare e alla volontà degli stessi coautori, “implicita nella mancata specifica attribuzione di apporti più chiaramente distinguibili”, onde si doveva ritenere “assolutamente equivalente il loro apporto e quindi giustificato e razionale il criterio di attribuzione paritaria ai coautori dei lavori collettivi”.
Pur concordando che è improprio definire “non valutabili” le pubblicazioni in collaborazione, la predetta conclusione dei giudici è stata considerata dubbia da un nostro lettore, che ha voluto sottolineare come i coautori siano definiti con troppa disinvoltura, in particolare da quando gli indici di valutazione (rectius, di misurazione) sono diventati pervasivi, almeno nell’interpretazione secondo l’accezione oggi data da Anvur e Miur.
Lo stesso lettore, al fine di suscitare “una riflessione su questo punto, fa un esempio banale: “Supponiamo che in un anno svolgo due ricerche che portano ad altrettante pubblicazioni su buone riviste. Un mio collega fa altrettanto. Alla fine dell’anno abbiamo due pubblicazioni di buon livello a testa. Se però io inserisco il collega come co-autore e lui fa altrettanto con me, alla fine dell’anno avremo quattro pubblicazioni di buon livello. Senza alcuna penalizzazione, anzi con giovamento di entrambi, secondo gli aurei criteri invalsi oggi. Quanto sopra è oltremodo banale: è possibile elaborare strategie anche molto più sofisticate, per esempio per incidere anche sul numero di citazioni, h index e altre amenità del genere”.
Dal momento che le perplessità testé manifestate ci sono parse non del tutto peregrine, anche noi abbiamo ritenuto utile tornare sull’argomento, nell’esclusivo interesse del buon funzionamento delle selezioni all’interno dei patri atenei.