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Sabato, 04 Mag 2024

All’incrocio fra i sogni dell’economia digitale e la concretezza dell’economia analogica troviamo un quadratino di silicio dove vengono stampate miriadi di informazioni che trasformano questo pezzo di materia morta in una vita animata da procedure logiche: un cervello automatico. Questa raffinatissima calcolatrice, che adesso sogniamo di trasformare in vita intelligente, è al centro della più straordinaria fabbrica di cervelli della storia: l’industria dei semiconduttori.

Anche questa, come quella dell’acciaio e delle armi e per ragioni identiche, ha finito col diventare un’altra tessera dell’intricatissimo mosaico dove le ragioni dell’economia si incrociano con quelle della politica, mescolandosi insieme concretissimi interessi finanziari a questioni legate alla sicurezza nazionale.

La fabbrica dei cervelli produce il chip del vostro smartphone, ma anche quello di un sistema missilistico. E soprattutto, sul crinale di queste produzioni vivono relazioni economiche fra gli stati che sono anche squisitamente politiche. E come esempio vale quello delle tensioni recenti fra Cina e Stati Uniti – ancora loro e ancora una volta – dopo che gli asiatici avevano annunciato di voler mettere in cantiere un piano di investimenti da 150 miliardi in dieci anni, proprio per il settore dei semiconduttori, suscitando commenti alquanto piccati da alcuni esponenti politici Usa evidentemente sobillati dall’industria.

La Cina, difatti, è una grande consumatrice di chip made in Usa, ma, al tempo stesso, le grandi compagnie Usa di semiconduttori hanno notevolmente dislocato in Cina. Quindi, da una parte abbiamo un gigante emergente a cui – caso più unico che raro – è stato impedito dall’amministrazione Obama di comprare una compagnia Usa di microprocessori e, dall’altro, le corporation Usa che vendono ai cinesi una quota rilevante dei 228 miliardi di dollari di importazioni collegate ai semiconduttori che i cinesi hanno speso nel 2016.

Queste cronache sono spia di una realtà economica sostanziale che purtroppo rimane confinata nelle letture degli specialisti e perciò poco conosciuta malgrado sviluppi un mercato di tutto rispetto quanto a volumi di produzione e di ricavi. Gli ultimi dati diffusi dalla World Semiconductor trade statistics, associazione che monitora il settore, vedono una crescita rilevante del mercato quest’anno e il prossimo, dopo un 2016 durante il quale il settore ha guadagnato l’1,1% portandosi a 338,9 miliardi di dollari, il record di tutti i tempi. Per quest’anno si prevede una crescita del 6,5%, fino a 361 miliardi, per arrivare, aggiungendo un altro 2,3%, ai 369 miliardi del 2018. I sottosettori più vitali sono l’industria dei sensori e delle memorie, con tutte le regioni geografiche in crescita.

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Questo andamento assai vispo è una delle caratteristiche salienti di quest’industria che, seppure fra i normali alti e bassi, ha visto crescere regolarmente i suoi ritorni economici. Dalla metà degli anni ‘90 a oggi, infatti, i ricavi sono più che raddoppiati a livello globale e sarebbe strano il contrario visto che la nostra fame di cervelli automatici cresce di continuo.

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Per entrare un po’ più nel dettaglio e vedere chi si spartisce questa torta, può essere utile scorrere una pubblicazione recente diffusa dal Dipartimento del commercio internazionale Usa che è un buon punto di partenza per avere contezza della posta in gioco. Se vi chiedete perché mai il governo Usa si preoccupi di monitorare questo settore, è sufficiente osservare che gli Usa sono i primi fornitori al mondo non solo di semiconduttori ma anche di attrezzature per la produzione di chip, settore nel quale gli statunitensi pesano il 47% del mercato. “Oltre l’80% della produzione Usa di semiconduttori viene venduta all’estero, così come l’84% delle attrezzature”, spiega il Dipartimento. “Per competere in questa industria – sottolinea lo studio – le compagnie che producono chip e attrezzature devono esportare”. E i principali mercati di riferimento sono la Cina, l’Ue, il Giappone, la Corea del Sud e Singapore.

Il mercato asiatico, peraltro, è diventato una delle principali fabbriche di chip sia in conseguenza degli investimenti diretti delle compagnie Usa, sia per le decisioni dei governi di spingere sul pedale della produzione. Questa tabella riepiloga i principali mercati delle esportazioni Usa per chip e attrezzature.

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Quest’altro grafico invece misura le quote di produzione degli stati interessati.

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Come si può osservare, la produzione Usa è preponderante, anche se non mancano le sorprese. L’Olanda, ad esempio, è la terza produttrice di attrezzature per costruire chip, un mercato che vale circa 37 miliardi, mentre la Cina, nonostante i timori Usa e i massicci investimenti fatti in questi anni, pesa appena il 4% del totale della produzione di chip, poca cosa rispetto all’11% del Giappone o al 17% della Corea del Sud, che sono in questa industria da decenni. Anche qui come altrove, insomma, la Cina si trova a dover recuperare un notevole ritardo.

Il mercato dei semiconduttori, infatti, che vale oltre 300 miliardi, vede cinque compagnie statunitensi nella top ten e otto nella top twenty. Ma non è detto che sia sempre così “Le politiche opache della Cina e gli investimenti massicci e senza precedenti delle compagnie cinesi pubbliche per sviluppare aziende indigene” sono in cima alle preoccupazioni del governo Usa, assai più di quanto accada per l’Ue o il Giappone che, malgrado le dimensioni, giocano all’interno delle regole del WTO, e quindi sono estremamente permeabili alla produzione Usa, esattamente come accade per la Corea del Sud, mentre Taiwan, che è uno dei pezzi forti dell’industria asiatica delle attrezzature per chip, è praticamente la porta d’ingresso per la Mainland cinese, oltre ad essere anch’essa nel WTO e perciò non impone dazi all’import dagli Usa.

Il caso cinese, al contrario, è controverso. La decisione annunciata di investire 150 miliardi nell’industria mette a serio rischio quel 29% di vendite che pesa la Cina sul totale delle vendite estere Usa di semiconduttori. Una cifra vicina ai 100 miliardi di dollari nel 2015 che difficilmente il paese potrà continuare a spendere, specie in tempi di restrizioni commerciali crescenti e risorse declinanti. Anche per questa ragione, il governo cinese ha ideato il piano da 150 miliardi che si propone, insieme con altri, di contribuire a trasformare la Cina da economia a basso valore aggiunto, che quindi guadagna sulla quantità dei prodotti, a paese che vende merci di qualità, essendo persino disposta a utilizzare la regolazione per spiazzare l’import.

La forza della Cina, infatti, è il suo mercato interno e la sua fame davvero insaziabile di semiconduttori. La produzione nazionale, infatti, è capace appena di coprire il 9% della domanda, lasciando all’estero il restante 91%, per la gioia dei grandi produttori esteri, Usa in testa. Ma fino a quando? Il piano del governo ha una durata prevista di dieci anni e il paese ha già cominciato ad attuarlo seguendo la strada delle fusioni e acquisizioni internazionali e poi sfruttando al massimo i vantaggi che derivano dalla gestione del mercato interno e dalla regolazione.

E’ chiaro che in prospettiva l’industria Usa è quella che rischia di patire i danni peggiori, vista la sostanziale esposizione delle fabbriche statunitensi alla domanda cinese. E non solo. Le industrie Usa soffrono ogni anno perdite stimate in 7,5 miliardi di dollari a causa del mercato parallelo dei chip contraffatti che costa circa 11 mila posti di lavoro, e che vede nei cinesi – o almeno così dicono gli Usa – i primi protagonisti del traffico di questi cervelli falsi, spesso malfunzionanti e pericolosi. Rimane il fatto che al momento la cinese Lenovo, così come la Huawei, stanno fra i 10 top buyer globali di semiconduttori, precedendo di poco altre grandi compagnie come la ZTE, la Datang Telecomm, e la Xiaomi and Hailer. Non c’è da stupirsi insomma, se proprio in questi giorni la Cina abbia ospitato la Semicon, la grande fiera dei semiconduttori che si è tenuta a Shanghai e alla quale ha partecipato anche Ding Wenwu, presidente del China National IC Industry Investment Fund, che poi è una delle entità chiamate a guidare il piano di investimenti da 150 miliardi.

Se la Cina è la potenza emergente dell’industria, l’Asia, vista come un tutto, è l’autentica rivale degli americani, visto che, sommati tutti i produttori asiatici, arrivano a quotare il 38% della produzione di chip. La crescita della Cina, in tal senso, potrebbe far pendere definitivamente l’ago della bilancia verso l’Asia che. non solo ha le risorse, ma può contare soprattutto su una domanda molto forte.

L’Europa in questa partita fa l’ago della bilancia. Con il suo 10% circa di quota di mercato, l’Ue rappresenta al tempo stesso un mercato privilegiato della produzione americana, almeno finora, con la Germania in testa, seguita da Francia, Olanda, Repubblica Ceca e Ungheria. Complessivamente l’Ue ha importato circa 28 miliardi di semiconduttori nel 2015, con la Germania a fare la parte del leone (18,1 miliardi), seguita poi dall’Olanda con 7,8 mld. Il primato della Germania si spiega con la circostanza che il paese è un forte produttore di automobili, macchinari industriali e elettromedicali, ossia industrie ad alto contenuto di semiconduttori. Un mercato importante, ma maturo, che ospita ben 40 fabbriche di semiconduttori, alcune delle quali sono frutto di investimento diretto statunitense (ad esempio la Globalfoundries e la Texas Instruments).

Anche la Francia, che pure rappresenta la seconda industria elettronica del continente, non ha certo volumi comparabili, malgrado sia molto forte nell’industria delle comunicazioni, fisse e wireless, nel settore dei radar della navigazione e della difesa elettronica.

Ma i numeri europei pesano poco nella partita globale. E’ evidente che la sfida dell’industria si combatterà ad Oriente, non certo in Europa. Non a caso il Dipartimento del commercio americano individua innanzitutto nel Giappone “un importante mercato e competitore per gli Usa”, trattandosi della terza industria del mondo e patria di due delle più grandi compagnie che trattano chip, ossia la Sony e la Toshiba, grandi produttori di apparecchiature elettriche che fanno uso intensivo di semiconduttori.

Il Giappone, infatti, che nel passato aveva un’industria formidabile, poi duramente colpita da varie crisi, rimane comunque il terzo produttore al mondo e tiene relazioni commerciali con i cugini cinesi e sudcoreani, che limitano a poco più del 38% la quota di mercato Usa al loro interno. Anche per i semiconduttori, come abbiamo visto nel caso delle reti a 5G, la ragione economica favorisce una visione geopolitica assai diversa da quella tradizionale imperniata sulla rivalità con i cinesi. In realtà, gli spazi di collaborazione fra queste economie, che sono molto simili, si stanno ampliando.

Per concludere, è interessante osservare il ruolo che Taiwan si è ritagliato nell’industria, divenendo il primo mercato per le attrezzature e il sesto per i semiconduttori, ma soprattutto perché ospita le principali manifatture delle attrezzature elettroniche che poi vengono assemblate in Cina, con la quale l’industria taiwanese dei semiconduttori intrattiene profonde relazioni commerciali.

A Taiwan hanno trovato casa l’Acer, la AsusTek e l’HTC, e anche la Foxconn/Hon Hai leader nei servizi Ems (Electronic manufacturing services). Al tempo stesso, a Taiwan operano grandi compagnie di semiconduttori, Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (TSMC) e la United Microelectronics Company (UMC), che sono importanti interfaccia per le compagnie Usa. Insomma, Taiwan si è conquistato il ruolo di perfetto ponte fra l’industria dei semiconduttori occidentale a guida Usa e quella asiatica, con la Cina che si a candida al ruolo di leader.

La piccola isola ha un grande ruolo strategico nell’alba del secolo asiatico dei semiconduttori. Anche per questo, probabilmente, Pechino non smette mai di ricordare al mondo che esiste una sola Cina.

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giornalista socioeconomico - Twitter @maitre_a_panZer

L’articolo è stato pubblicato anche sul n. 15 di Crusoe, newsletter in abbonamento prodotta da Slow News.

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