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Venerdì, 05 Dic 2025

Delle “cattedre Natta” (come anche di chiamate dirette et similia) su questo giornale ci siamo occupati più volte, sin da quando hanno fatto capolino all’orizzonte dell’ordinamento universitario e ogniqualvolta sull’argomento si profilava qualche novità di sorta. Da ultimo, la scorsa settimana, abbiamo riportato le infuocate dichiarazioni del presidente dell’Infn, Fernando Ferroni, che ne ha parlato quasi come di un’araba fenice, di cui si suole ripetere “che ci sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa”.

Insomma, cattedre come albe apparenti e scomparenti. Da alcuni attese, nella speranza di ri-entrare in Italia, paese evidentemente considerato meno peggio di quel che comunemente si pensa; da altri, se non osteggiate, non proprio viste di buon occhio, se non altro perché, si dice, anziché far partire le Natta, meglio sarebbe incrementare il Fondo di finanziamento ordinario e garantire il turn over dei docenti.

Tra i meno entusiasti di come in concreto si sviluppino certe iniziative governative lanciate con le migliori buone intenzioni, soprattutto con l’obiettivo di recuperare i cervelli fuggiti e in procinto di fuggire, segnaliamo due casi, a modo loro emblematici, di come certe vicende, come le Natta e le chiamate dirette, possano legittimamente essere vissute in prima persona da spettatori non disinteressati.

Nel condividere le lamentele manifestate dal professor Ferroni, un ricercatore, a suo tempo componente di un piccolo nucleo di titolari di finanziamenti ERC (European Research Council), chiamato nel 2013 dall’allora ministro Profumo per mettere in cantiere il nuovo regolamento sulle chiamate dirette negli enti di ricerca, ci ha fatto sapere di essere uno dei pochissimi ERC che non è stato ancora destinatario di tale chiamata.

Ma c’è di più: sempre nel 2013 il presidente dell’ente, presso il quale è precario, lo indicò nel primissimo elenco di candidati a ciò destinati, ma il Miur, per motivi inspiegabili e a lui mai resi noti, non lo incluse nella lista dei chiamati. Sta di fatto che fino all’anno scorso, lo stesso ente ha deciso di non ricandidarlo, mentre lo ha fatto per vari colleghi esterni all’ente. Dall’ente di appartenenza, viene rinnovato per brevi periodi, ma l’anno in corso e il prossimo sono gli ultimi in cui potrà ancora fruire di una chiamata diretta, dopodiché, per non lasciare la ricerca, gli resterà soltanto la legge di stabilizzazione. Insomma, il nostro è una specie di eterno precario, mentre i suoi colleghi più giovani, parimenti titolari di ERC, diventano ordinari o associati.

Da un’università del Mezzogiorno, invece, ci perviene una nota assai più critica, poiché è proprio la chiamata diretta a essere messa in discussione. Ci si fa, infatti, osservare che sarà pure giusto far rientrare cervelli e ricercatori eccellenti, ma che non occorre dimenticare chi è rimasto in Italia a lavorare, “lottando con la mancanza di fondi, con i pensionamenti che costringono a carichi didattici inumani, cercando di continuare a fare dall’interno una ricerca dignitosa anche a livello internazionale”, pagandosi i congressi, assumendo cariche istituzionali non retribuite per continuare a far funzionare l’università.

In particolare, ci si fa rilevare il paradosso che tra i criteri dell’Asn c’è l’insegnamento in qualificati atenei, ma solo quelli all’estero, mentre quello in cui lavora chi scrive sarebbe inspiegabilmente “non qualificato”. Col paradosso nel paradosso che queste “eccellenze all’estero” non potrebbero rientrare” se non ci fosse chi lotta ogni giorno per sostenere la propria Università”, mai valorizzato abbastanza dal nostro paese.

Tot capita, tot sententiae, si dirà. Resta il fatto che i nostri governanti, che puntualmente si riempiono la bocca con la ricerca quale condizione imprescindibile per il futuro del paese, non sembrano poi averla così a cuore come dicono.

A proposito: dal dicastero della ministra Fedeli, almeno una risposta Ferroni la meriterebbe.

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