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Venerdì, 05 Dic 2025

La nostra esplorazione del mondo dell’agromafia continua oggi con l’analisi del fenomeno del caporalato. Dati alla mano, l’agricoltura occupa in Italia il 3,5% della forza lavoro: 600mila italiani e 350mila stranieri. Questi ultimi costituiscono, quindi, circa il 35% del totale degli occupati nel settore. Si tratta di manodopera non specializzata che, come precisa il 5° Rapporto sui crimini agroalimentari in Italia, è in grado di svolgere attività riconducibili alle cosiddette 5P, ossia attività precarie, poco pagate, pesanti, pericolose e penalizzate socialmente.

Al riguardo, occorre ricordare che, nelle campagne italiane, numerose ricerche nazionali e internazionali denunciano le condizioni di lavoro, alloggiative e sanitarie per circa 100mila lavoratori, spesso costretti a vivere in ghetti, impiegati senza regolare contratto di lavoro, esposti a caporalato e tratta internazionale, sino a definire condizioni che denotano la sistematica violazione dei diritti umani. A questi 100mila lavoratori vanno aggiunti gli stagionali regolari e irregolari, come i braccianti assunti a nero, giunti in Italia per motivi diversi dal lavoro, oppure privi del relativo permesso di soggiorno. L’agricoltura italiana costituisce, insomma, un settore a chiara vocazione migratoria, almeno nella fase iniziale del percorso migratorio.

Alcuni immigrati lavorano, più o meno stabilmente, nelle stesse imprese agricole, altri, invece, circolano per il territorio nazionale seguendo l’andamento della produzione agricola e la domanda di manodopera a basso costo. In questo contesto, è sorto e si è sviluppato un sistema di illegalità e criminalità diffusa, espressione di una relazione strumentale tra mafie autoctone e mafie straniere, tra criminali vari (trafficanti e caporali) e alcuni datori di lavoro. Talvolta, come molti ricorderanno, queste esasperate situazioni di sfruttamento hanno acquistato anche rilevanza sociale e politica, come è avvenuto con la rivolta di Rosarno, nel 2010, e lo sciopero dei braccianti indiani di Latina, nel 2016.

Nell’ambito del lavoro nero e del lavoro grigio (caratterizzati, rispettivamente, da una totale o parziale assenza di tutela dei lavoratori), un ruolo importante è giocato dal caporalato, in cui un intermediario, spesso di origine straniera, recluta e assume, per conto di un datore di lavoro compiacente, manodopera da impiegare nella relativa azienda, obbligando i lavoratori ad orari e a modalità di lavoro illegali e spesso pericolose. Si tratta di situazioni di subordinazione lavorativa e sociale determinate dallo sbilanciamento dei rapporti di forza tra datori di lavoro e lavoratori, derivante da molteplici fattori che interagiscono tra loro, a partire dalla retribuzione e, per quanto riguarda i lavoratori stranieri, dalla loro condizione giuridica, la quale, spesso, rappresenta l’anticamera dello sfruttamento e della ricattabilità degli stessi e il presupposto, a volte, della formazione di nuove organizzazioni criminali, anche di stampo mafioso, o del rafforzarsi di quelle già operanti.

Esistono a livello nazionale alcune buone pratiche assunte da Istituzioni, organizzazioni del Terzo Settore e associazioni, che possono stimolare la formulazione di politiche di intervento migliori nel contrasto al lavoro nero e allo sfruttamento. Sul piano normativo, l’anno scorso (legge 29 ottobre 2016, n.199) è entrata in vigore la nuova disciplina penale in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero e dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e, in quello stesso anno, sono state condotte diverse operazioni da parte delle forze dell’ordine e avviati importanti processi giudiziari nei riguardi di caporali italiani e stranieri, responsabili, in certi casi, addirittura della riduzione in schiavitù di diverse persone. Sono stati conseguiti risultati importanti.

Secondo gli autori del Rapporto, “occorre però poter confidare in una nuova normativa penale che, se vuole rappresentare l’inizio di un rigenerato percorso per l’agricoltura italiana, deve saper anche garantire, nella sua piena applicazione, l’interesse comune e condiviso di Istituzioni, Lavoratori e Imprese”.

3 - continua

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