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Venerdì, 19 Lug 2024

Perché l’autonomia differenziata fa male anche al Nord, di Stefano Fassina - Castelvecchi Editore, pp. 150 – 17,00 euro.

Recensione di Adriana Spera

Forse i leghisti nel chiedere l’autonomia differenziata speravano di fare un favore, di dare un vantaggio al Nord, ma così non è, come ci dimostra in un suo recente saggio Perché l’autonomia differenziata fa male anche al Nord - edito da Castelvecchi - l’ex deputato, nonché economista, Stefano Fassina, che: ha lavorato al Fondo Monetario Internazionale (di certo con idee diverse da Cottarelli); negli anni della segreteria Bersani è stato responsabile “economia e lavoro” del Partito democratico (da cui poi è uscito); vice ministro dell’Economia e delle Finanze nel governo Letta; dal 2018 presiede l’associazione Patria e Costituzione.

In questi giorni, quando si prova ad avanzare critiche alla legge che introduce l’autonomia differenziata, prontamente la destra al governo risponde che semplicemente si sta dando attuazione alla riforma del Titolo V della Costituzione, varata dal centro sinistra nel 2001.

Quella riforma era sbagliata, ha accentuato tanto le differenze tra Nord e Sud, quanto ha determinato un andamento della spesa che ha contribuito non poco alla crescita del debito pubblico e alla inefficienza dei servizi pubblici, a una deriva privatistica degli stessi, specialmente nell’ambito della sanità.

Eppure, la riforma del titolo V ha sempre trovato dei fautori tanto a destra quanto a “sinistra”, da ultimo il Governo Gentiloni, quando era ormai in scadenza, sottoscrisse degli “Accordi preliminari” per delegare delle materie, con i presidenti di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna, e poi i Governi Conte I e II e Draghi hanno portato in Consiglio dei Ministri Disegni di Legge sull’autonomia che non sono mai approdati in Parlamento. Mai nessuno però è arrivato ad un’architettura come quella del DdL 615/23, ora legge 86/24, ideata dal leghista Calderoli, che rischia di riportare ad un’Italia frammentata in tanti staterelli, come era prima dell’Unità, quando, nel lontano 1847 il cancelliere austriaco Klemens von Metternich la definiva: “l’Italia è un’espressione geografica”, riferendosi alla sua suddivisione in tanti staterelli indipendenti.

Pier Luigi Bersani, nella prefazione del saggio di Fassina, con la sua consueta onestà intellettuale, ricorda che quella riforma fu il frutto di una “confusa suggestione federalista” del centrosinistra, nel vano “tentativo di assorbire le pulsioni dissociative espresse dalla 'Lega Nord per l’indipendenza della Padania'”; a suo giudizio, dopo la riforma del 2001 il legislatore ordinario avrebbe dovuto predisporre una normativa-quadro che avrebbe dovuto condurre ad Intese - da sottoporre al voto del Parlamento - che tenessero esclusivamente conto delle peculiarità dei singoli territori per favorire una maggiore efficienza dei servizi locali.

Anche nella suddetta legge 86/24, appena approvata, sono previste le Intese, hanno una durata decennale e non sono modificabili senza l’assenso dei Governatori. Il risultato è una sorta di centralismo regionale, a tutto discapito dell’autonomia e della governabilità dei Comuni.

Quello approvato, è un testo che rischia di trasferire alla potestà legislativa delle Regioni ben 23 materie, con conseguenze sistemiche distruttive dell’unità del Paese, delle pari opportunità e diritti dei cittadini. Insomma, si rischia di trasformare l’Italia in ventidue staterelli, se oltre alle Regioni teniamo conto delle Provincie autonome di Trento e Bolzano; un assetto che non è riscontrabile in nessun altro Stato federale al mondo. Come hanno detto in molti, il risultato sarebbe uno “Stato Arlecchino”. Negli Stati ad assetto federale v’è sempre una Camera delle autonomie territoriali.

Sarebbe sbagliato sottovalutare le iniziative in corso su entrambi gli ambiti (premierato e autonomia differenziata, ndr), forma di governo e forma di Stato, quasi fossero una bandiera di propaganda destinata a fermarsi sugli scogli della realtà. Si tratta, invece, dell'intenzione vera, sancita da un patto politico, di creare una cesura nella vicenda dell'Italia repubblicana. Una rottura rifondativa. – scrive nella prefazione Bersani, che aggiunge – Infatti, cambierebbe radicalmente l'impianto della Repubblica parlamentare, fino a stravolgerlo. Si marginalizzerebbe la funzione del Parlamento e delle istituzioni di garanzia, in primis quella del presidente della Repubblica. A cascata, verrebbe anche compromessa la praticabilità degli obiettivi programmatici essenziali: la liberazione effettiva della persona dagli ostacoli che ne compromettono la realizzazione piena; la dignità del lavoro; la giustizia sociale. Insomma, la posta in gioco è altissima”. E, dulcis in fundo, l’autonomia differenziata andrà a danneggiare anche il Nord perché, come scrive l’ex ministro dello Sviluppo economico, “tutte le volte che il divario Nord-Sud cresce, cresce anche il divario fra Nord e regioni europee”.

Con questa riforma, le Regioni, come già evidenziato, potranno estendere le loro competenze fino a 23 materie, che includono oltre 500 funzioni. Esse potranno occuparsi di: rapporti internazionali e con l'Unione europea; commercio con l'estero; tutela e sicurezza del lavoro; le professioni; istruzione e formazione professionale; ricerca scientifica e tecnologica; sostegno all'innovazione; tutela della salute; previdenza complementare e integrativa; grandi reti di trasporto e di navigazione; produzione, trasporto e distribuzione di energia; coordinamento della finanza pubblica; sistema tributario; ordinamento della comunicazione; valorizzazione dei beni culturali e ambientali; promozione e organizzazione di attività culturali; giustizia di pace, casse di risparmio; casse rurali; aziende di credito a carattere regionale e molto altro. Un corposo pacchetto di materie che vanno ad aggiungersi a quelle già di loro competenza esclusiva in quanto non espressamente riservate alla legislazione statale. Il problema della Calderoli è che i Governatori potranno richiedere una potestà legislativa esclusiva su materie di importanza nazionale e non connotate da alcuna specificità territoriale.

Insomma, come scrive il nostro autore, “la competenza legislativa esclusiva, riservata allo Stato dalla Costituzione del 1948, può passare alle Regioni anche su alcune materie cardinali per l'unità sostanziale della Repubblica”. Una cessione di competenze legislative del Parlamento alle Regioni che non era prevista dal testo originario della Carta che venne introdotto dai superficiali revisori costituzionali del 2001.

Con la Calderoli, addirittura, la cessione potrà avvenire con legge ordinaria. Insomma, già nel 2001 le modifiche, scrive Fassina, “furono piuttosto radicali. Sebbene investano formalmente soltanto la seconda parte della nostra Carta, la loro portata sostanziale può arrivare a incidere sui principi fondativi e intangibili della prima parte… l'autonomia non può diventare secessione di fatto perché c'è il limite della indivisibilità della Repubblica (art. 5 Costituzione, ndr)”.

Fassina, inoltre, ci rammenta che i padri costituenti guardavano con preoccupazione ad un possibile centralismo regionale; essi preferivano, anche in ossequio alla storia d’Italia, assegnare un ruolo centrale ai Comuni. “Le Regioni – scrive il nostro autore – sono un’invenzione recente… nella stragrande maggioranza dei casi, i rispettivi ambiti territoriali sono privi di una specifica storia unitaria, hanno scarsa distintività culturale e linguistica condivisa al loro interno, anzi, sono stati definiti, nella loro composizione geografica, da dati amministrativi avulsi da oggettivi fattori storico-culturali”.

Ma v’è di più, come ha scritto l’autorevole costituzionalista Massimo Villone, in un articolo apparso lo scorso 11 luglio sul “Fatto quotidiano”: “Le tre regioni (Lombardia, Veneto e Piemonte, ndr) chiedono funzioni in materie strategiche subito devolvibili, come commercio con l’estero e rapporti con l’UE. Insieme, hanno circa 20 milioni di abitanti. Nell’UE – senza contare l’Italia – sarebbero uno Stato ai primi posti per dimensione, dopo Germania, Francia, Spagna, Polonia e la candidata all’adesione Ucraina. Ancor più con Friuli-V.G., Trentino-A.A., Liguria, Emilia-Romagna. E se, acquisita tutta la maggiore autonomia richiesta, creassero con leggi regionali organi comuni per gestire le funzioni come l’art. 117.8 Cost. consente? Ad esempio, una assemblea rappresentativa emanazione dei consigli, insieme a un direttorio dei presidenti? Cosa rimarrebbe dell’Italia che conosciamo? Roma avrebbe solo la possibilità di un ricorso in via principale contro le leggi istitutive. Con quali argomenti? E certo ci sentiremmo dire, come accade oggi con l’autonomia differenziata, che attuano la Costituzione.
Il punto è che un trasferimento massivo di funzioni dal centro alla periferia rende realistico lo scenario di una macroregione. Calderoli è un fan. Nel marzo 2013 presentava un ddl costituzionale (AS 7) in cui l’autonomia differenziata era condizionata proprio alla istituzione di una macroregione, cui si legava la riserva di non meno del 75% del gettito tributario maturato sul territorio (art. 1). E se il disegno ultimo non fosse quello – davvero demenziale – di un’Italia arlecchino fatta di 21 staterelli? Se fosse, piuttosto, quello di due o tre paesi giustapposti, come nell’originaria idea di Miglio e della Lega?
“.

Tuttavia, pur nella loro importanza economica e demografica, in una economia globalizzata quale è quella attuale, non potrebbero mai essere sufficientemente competitive. Inoltre, qualora non uniformassero le loro legislazioni regionali, paradossalmente potrebbero entrare in competizione fra loro e vedrebbero complicarsi ulteriormente le procedure amministrative. Non certo uno stimolo ad investire per qualsiasi imprenditore. E comunque, prevarrebbe il divario normativo con le altre regioni che comunque resterebbero i loro clienti principali.

Insomma, si rischia un vero e proprio rallentamento nella circolazione interna delle merci, tanto più che già oggi, scrive Fassina, “Il Sud arretra, ma la ‘Padania’ è ferma… tutte le Regioni italiane sono ‘intrappolate’, con alcune aree del Nord ‘più intrappolate’ di aree del Mezzogiorno”. L’autore, in aggiunta, cita il Rapporto Svimez del 2019, secondo il quale “alcune Regioni dei nuovi Stati membri dell'Est superano ormai alcune Regioni forti italiane”.

Una situazione complicata anche dai cambiamenti avvenuti in Europa dove i fondi strutturali sono ormai appena l’1% del Pil dell’Unione; non siamo più l’Europa delle Regioni, ma l’Europa degli Stati in competizione fra loro, soprattutto attraverso il dumping sociale, commerciale e fiscale. Ma v’è di più, i nostri competitori avrebbero alle spalle i loro Stati, i nostri imprenditori avrebbero le Regioni.

Un assetto istituzionale che finirebbe per aggravare ulteriormente la situazione debitoria dello Stato, vuoi perché, come già avvenuto dal 2001 in poi, vi sarebbe un aggravio di spesa, sia perché restando il 90% delle entrate locali a livello territoriale il costo del servizio del debito pubblico nazionale aumenterebbe ulteriormente. Resterebbero in carico allo Stato centrale i 3mila miliardi di debito, per i quali dover continuare a pagare interessi sempre più alti perché diminuirebbero le garanzie (lo Stato perderebbe il controllo di circa la metà del suo gettito) e, di converso, anche il costo dell’eventuale indebitamento regionale salirebbe, con la conseguenza che avremmo sempre più servizi, attualmente pubblici e gratuiti, come la sanità, che verrebbero privatizzati, e i cittadini sempre più tartassati e impoveriti.

Ma già oggi siamo in una fase di progressiva privatizzazione della sanità e, a conferma di ciò, Fassina ci ricorda lo studio di Franco Mostacci e Monica Montella, dal titolo Lombardia e Lazio. Quando la sanità pubblica cede il passo ai privati, pubblicato su lavoce.info.

Un progetto che indebolisce ulteriormente il Parlamento (già sminuito dal Premierato) costretto ad esprimersi con un voto “a scatola chiusa”, i dettagli delle singole Intese verrebbero definiti da una Commissione “tecnica” paritetica nominata da Presidente del Consiglio e presidente di Regione. I risultati non passano attraverso alcuna verifica parlamentare, anche nei casi di funzioni svincolate dai famosi LEP (livelli essenziali delle prestazioni). Eppure, le nostre Regioni, con la Calderoli, rischiano di acquisire competenze esclusive che non ha nessuna Regione degli Stati Federali, come la Germania o la Spagna. Competenze che dopo la stipula delle Intese restano intoccabili per un decennio e difficilmente Palazzo Ghigi ricorrerebbe ai poteri sostitutivi previsti dall’art. 120 della Costituzione. In definitiva, avremmo un assetto regionecentrico a spese anche di Comuni e Provincie che verrebbero ridotti, dice il nostro autore , "ad un ruolo di meri vassalli".

Ora si dovrebbe andare a referendum sulla legge Calderoli, un percorso impervio perché essa è stata collegata alla legge di bilancio. Tuttavia, resta il fatto che i cittadini rischierebbero di avere non solo, come è oggi, 20 sistemi sanitari ma pure scuole, welfare, giustizia, sistemi bancari e persino retribuzioni e sistemi pensionistici diversi. Sono stati presentati due quesiti, con uno si chiede la totale cancellazione della legge, con un altro si chiede di soprassedere fino all’approvazione dei Lep, sostanzialmente sdoganando l’autonomia differenziata.

Eppure, a proposito dei Lep quasi tutti gli organismi auditi in commissione hanno espresso forti perplessità, su tutti Banca d’Italia, per la quale sono “formulati in termini troppo generici, in buona parte riconducibili a mere dichiarazioni di principio”. E dire che abbiamo già dato con i LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) per la sanità.

Il nostro autore conclude affermando che “le ragioni del Nord vanno riconosciute. Tuttavia, la rotta dell’AD (autonomia differenziata, ndr) porta al naufragio tutti, anche le Regioni più ‘forti’” e propone una ricetta che noi fautori della piena attuazione della Costituzione del 1948 non ci sentiamo di condividere: un regionalismo equilibrato, con il trasferimento graduale di competenze ad opera del Parlamento e l’istituzione di una Camera degli Enti territoriali (con conseguente cancellazione del Senato), che - a nostro avviso - non farebbe che rafforzare gli interessi locali, tanto più in assenza di una doppia lettura delle leggi. Un assetto istituzionale, peraltro, già bocciato con il referendum sulla riforma costituzionale proposta da Renzi.

Viceversa, ci troviamo d’accordo quando l’autore dice che non bisogna allargare ulteriormente l’UE ad altri Paesi, perché un’Europa a trentasei Stati non farebbe che accentuare il dumping tra Paesi e, conseguentemente, ridurre i diritti e impoverire i lavoratori.

Condividiamo pure l’idea che la BCE vada riformata, portandola a finanziare, piuttosto che le Banche, progetti europei per affrontare le emergenze. Su tutte, quelle climatiche.

Adriana Spera
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