di Roberto Tomei
Qualche anno fa un libro di Gianrico Carofiglio, intitolato La manomissione delle parole, dimostrava come certi termini avessero assunto, nel loro evolversi, un significato assai diverso, talvolta addirittura opposto, rispetto a quello originario.
Senza fargliene una colpa, tra questi l'autore non pensò di includere il vocabolo "riformismo”, che peraltro nemmeno nel Dizionario di politica di Bobbio e Matteucci ha una sua autonoma trattazione, essendo stato evidentemente ritenuto privo di valore scientifico.
Sulla manomissione che ha subito il termine riformismo ci invita ora a riflettere un libro di Ugo Mattei, Contro riforme, appena pubblicato per i tipi di Einaudi.
Mattei, brillante professore di diritto civile all'università di Torino, è stato anche fra i redattori dei quesiti referendari sui beni comuni del giugno 2011 e, per due volte, ha patrocinato il referendum davanti la Corte Costituzionale.
Effettivamente il termine è di gran moda e, ormai da parecchi anni, fare professione di riformismo sembra l'inseparabile corredo del politically correct. Non solo, ma dirsi riformisti sembra uno sport diffuso anche fuori dei nostri confini, come dimostra il fatto che chiunque metta piede in Italia (da ultimo, il vice presidente degli Stati Uniti venuto a trovare il nuovo Papa) ci incoraggia ad "andare avanti sulla strada delle riforme".
Ora, ognuno di noi è sempre stato convinto che riformare qualcosa significasse migliorare una data situazione nell'interesse di tutti i cittadini o almeno del maggior numero di essi. Sennonché, pare che al giorno d'oggi le cose non stiano proprio così e il merito di Mattei è quello di avercelo chiarito. Senza mezzi termini, così da non dare adito a equivoci.
E' con l'avvento della cosiddetta Seconda Repubblica che il riformismo cambia natura, conservando soltanto la pelle. Il termine continua a trasmettere un tranquillo messaggio di moderazione, ma nasconde una sua feroce determinazione. Piuttosto che il contenuto della trasformazione, mette a fuoco esclusivamente il processo trasformativo, come necessità, condivisa da tutti (bipartisan), di "ridisegnare alcuni tratti istituzionali tecnici (la cosiddetta governance) per ottenere crescita e sviluppo".
Il riformismo, insomma, come religione della crescita, che rappresenta l'esatto opposto dell'originario ideale riformista, in gran parte recepito dalla nostra dimenticata Costituzione, che colloca "l'uguaglianza, la giustizia sociale e la redistribuzione delle ricchezze attraverso il diritto al primo posto fra le preoccupazioni di una politica che voglia dirsi civile e che sappia farsi carico delle esigenze di tutti".
La sovversione di senso ha così portato il riformismo a coincidere con liberalizzazioni e privatizzazioni, abilmente messe in una luce di generale favore, astutamente marchiando a un tempo di estremismo e velleitarismo qualunque soluzione alternativa.
"Questo" riformismo ha trovato il suo grimaldello nel debito pubblico, diagnosticato come la malattia mortale degli stati, da contrastare con cure invasive e costosissime, anche infischiandosene della volontà popolare.
Sta di fatto che il nostro debito pubblico non solo non è diminuito ma è addirittura cresciuto, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti: è crollato il valore del patrimonio pubblico, è peggiorata la qualità della vita, sono stati distrutti i legami sociali.
E' proprio il caso di cominciare a pensare a una drastica inversione di rotta.