di Adriana Spera
“Per un governo di cambiamento” , “L'Italia giusta, dove nessuno rimane indietro, dove il lavoro costruisce la vita”, “L'Italia giusta, dove la politica dice la verità”, questi sono solo alcuni degli slogan a cui hanno creduto ben 8.644.523 elettori, che il 24 e il 25 febbraio scorso hanno dato la propria preferenza al Partito democratico, che scendeva in campo nella coalizione “Italia bene comune”.
Sembra quasi una barzelletta, alla luce di quanto è accaduto nei giorni scorsi.
Non solo non abbiamo assistito alla nascita del “Governo del cambiamento” ma abbiamo vissuto il funerale della nostra democrazia (repubblicana) nella forma sortita dalla Liberazione dal nazi-fascismo.
Quanti si erano già sperticati sul divieto di mandato imperativo, ci hanno dato un esempio pratico di come interpretano l'art. 67 della Costituzione: una delega in bianco. Mai come oggi i partiti dimostrano di esser sordi alle istanze dei propri elettori. Mai come oggi si dimostrano pronti a tradire le promesse fatte in campagna elettorale.
Eppure, l'occasione per il cambiamento si era presentata davvero se solo si fosse voluto eleggere un Presidente della Repubblica che incarnasse un modello diverso di governo, un Presidente attento ai bisogni dei cittadini, sempre più privati dei diritti più elementari riconosciuti dalla nostra Carta costituzionale. dal lavoro alla casa; dalla dignità alle pari opportunità. Non si può dire con certezza che Stefano Rodotà sarebbe stata la persona giusta, sta di fatto però che egli è un fine giurista, un interprete attento della Costituzione, sempre in prima linea per supportare le battaglie dei cittadini a difesa dei beni comuni. Sostenitore di un diverso modello socio-economico, che rappresenta oggi la sola via d'uscita dalla crisi in cui ci ha condotto un liberismo avido e corrotto. Attento ai cambiamenti che la rete produce nelle democrazie, alla ormai ineludibile partecipazione dei cittadini alle scelte che incidono sul loro futuro, sulla qualità della loro vita, così come già avviene in paesi evoluti come, ad esempio, il Canada.
Si dirà che il Presidente della Repubblica non partecipa alla formazione delle leggi e che è solo il garante della Costituzione. Giusto. Eppure ieri abbiamo avuto modo di ascoltare un discorso di insediamento fortemente condizionante per il Parlamento, nel quale si è affermato, tra l’altro, che: « Se mi troverò di nuovo dinanzi a sordità (se non si fanno le riforme da ultimo proposte dai “saggi”, ndr) come quelle contro cui ho cozzato nel passato, non esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al paese».
Quanto è accaduto sabato scorso è non solo un evento inusitato nella storia repubblicana di un paese in cui il mandato presidenziale dura ben sette anni, ma è anche il grimaldello per andare ben oltre quella riforma della seconda parte della Costituzione in chiave presidenzialista, tanto voluta dal Cavaliere e bocciata da un referendum popolare il 25 e 26 giugno 2006, con 15.791.293 di voti contrari (61,32%) su 25.753.641 di votanti.
Forse ci aspetta un futuro ancor più triste, come è sempre stato quando la politica dei forti, con le larghe intese, si allea contro i diritti dei deboli.