di Flavia Scotti
Con sentenza n.15010/13 (Pres. Lamorgese, Rel. Marotta), pubblicata il 14 giugno, la sezione lavoro della Cassazione ha stabilito che non importa che le mansioni cui è destinato il lavoratore dopo il trasferimento siano, sul piano astratto, equivalenti a quelle svolte in passato: il rispetto delle regole dello ius variandi da parte del datore di lavoro deve essere verificato nel concreto al fine, non solo di escludere che il nuovo incarico non metta a rischio il bagaglio professionale che il dipendente ha accumulato presso l’azienda, ma che gli dia arricchimento.
Su tali presupposti, la Suprema Corte ha respinto il ricorso di una grande azienda che aveva unificato in una sola posizione dipendenti provenienti da aree aziendali eterogenee, con ciò confermando la sentenza di merito, che aveva reintegrato nelle vecchie mansioni, con conseguente diritto al risarcimento del danno, un ex perito retrocesso al grado di sportellista, dopo essere stato coordinatore di una squadra di manutentori.
Inutile per l’impresa sostenere che la dequalificazione del danneggiato sarebbe stata inevitabile, vista l’esternalizzazione del servizio cui il dipendente era preposto.
E' stato provato, infatti, che il demansionamento risale a un’epoca precedente alla scelta di dismettere le attività interne “incriminate”.