Con la sentenza della III sezione n.549 del 4 febbraio 2015, il Consiglio di Stato, mentre fornisce tutti gli elementi costitutivi del mobbing, lo rende in concreto una fattispecie di, se non impossibile, assai difficile verificazione.
Ed invero, secondo tale pronuncia, per la configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro pubblico, va accertata la presenza di una pluralità di elementi costitutivi, dati: a) dalla molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio; b) dall’evento lesivo della salute psicofisica del dipendente; c) dal nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell’integrità psicofisica del lavoratore; d) dalla prova dell’elemento soggettivo e, cioè, dell’intento persecutorio.
In pratica, per mobbing deve intendersi una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica.
Come ognun vede, per aversi mobbing ci vuole veramente troppo.
Vien da pensare che, nonostante volumi, voci enciclopediche, pronunce dei giudici, convegni e quant’altro il mondo del diritto può mettere in campo, il mobbing faccia veramente una gran fatica a imporsi alle nostre latitudini.
E se forse finora non sempre se ne è identificata la fine sostanza, dopo una sentenza come questa esso rischia di diventare niente più che un idealtipo, che solamente in casi eccezionali riuscirà a inverarsi in una fattispecie reale.