Dovremmo essere grati a Bankitalia che nel suo ultimo rapporto annuale ci ricorda un dettaglio che le nostre società, ricche e lamentose, tendono costantemente a obliterare, prese come sono dalla defatigante attività di compiangersi.
Là fuori, dove nessuno guarda, ci sono alcune decine di economie, dove incidentalmente abita il 20 per cento della popolazione mondiale, che esprimono i più bassi redditi del mondo. Del tutto insufficienti, quindi, anche solo per sopravvivere.
In dettaglio, le economie censite sono 73 e tutte hanno in comune il trend cui nessuno oggi sembra poter sfuggire: quello dell’aumento del debito. Negli ultimi dodici anni, fra il 2012 e il 2024, il volume aggregato dei debiti pubblici di queste economie è cresciuto dal 30 al 50% del pil, poca cosa rispetto a quello che si è osservato nelle economie avanzate, ma comunque rilevante. Specie se si ricorda che quando si arrivò all’80%, negli anni Novanta, il mondo dovette sviluppare una serie di iniziative per cancellare questi debiti, evidentemente non rimborsabili.
Oggi non siamo ancora arrivati a questo punto, ma stiamo andando verso questa direzione. “Molti di questi paesi – scrive Bankitalia – si trovano a fronteggiare elevati rimborsi di passività in scadenza, costi di rifinanziamento più onerosi e flussi di investimento dall’estero in calo. Secondo le analisi dell’FMI e della Banca Mondiale, circa la metà ha una posizione debitoria ad alto rischio o ha già sperimentato difficoltà di rimborso”.
Questa situazione, già degradata, si alimenta nella crescita esuberante del costo del servizio del debito, un problema che anche le ricche economie avanzate iniziano a patire, che negli ultimi 15 anni ha raggiunto in media, in rapporto alle entrate pubbliche, il 9%. Per un quarto dei paesi considerati, supera addirittura il 18 per cento. Chiaro che in queste condizioni fiscali diventa difficile sostenere qualunque tipo di sviluppo.
L’aumento del costo del servizio del debito porta con sé anche quello dovuto ai paesi esteri, che è cresciuto altresì. Si parla di 54 miliardi di dollari, in meda, ogni anno, nel periodo 2021-23, rispetto ai 27 miliardi del decennio precedente e la Banca Mondiale stima arriveranno a 75 miliardi entro il 2026: il 13% delle entrate pubbliche che equivale a triplo di quello che era agli inizi degli anni Duemila.
L’aumento del debito estero si è associato con una diminuzione dei flussi di finanziamenti dall’estero. Addirittura fra il 2022 e il 2023 i flussi netti sono diventati negativi, e solo in parte sono stati compensati da quelli arrivati dalle istituzioni multilaterali.
Il combinato disposto rende particolarmente fragile la situazione di questi paesi, che pure in presenza di un debito sostenibile rischiano costantemente una crisi finanziaria. Il Fmi ha messo in piedi una serie di iniziative per offrire misure di sostegno, ma è chiaro che in un contesto di economia complicata come quello in cui stiamo vivendo gli spazi di support per i più bisognosi di restringono.
Finora, solo quattro paesi hanno chiesto la ristrutturazione del debito attraverso il G20 Common Framework, un meccanismo istituito in seno al G20 per aiutare i paesi con difficoltà finanziarie. Si tratta di Ciad, Zambia, Etiopia e Ghana. Ma la situazione rimane complicata per molti altri, anche in considerazione del mutato contesto nel quale questi paesi si trovano oggi a vivere. Negli anni, infatti, ci sono stati due cambiamenti rilevanti: da un lato l’emersione della Cina, come principale creditore bilaterale. Poi l’aumento dei creditori privati.
Il vecchio mondo, quello del Club di Parigi, per intenderci, è sempre meno rilevante. E quello nuovo, che stenta a sorgere, non è detto che sarà migliore.
Maurizio Sgroi
giornalista socioeconomico
autore del libro “La storia della ricchezza”
coautore del libro “Il ritmo della libertà”