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Mercoledì, 03 Lug 2024

La grande bellezza di Paolo Sorrentino, con Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Roberto Herlitzka, Isabella Ferrari, Giorgio Pasotti, Serena Grandi, Luca Marinelli, Massimo Popolizio, Giorgia Ferrero, Pamela Villoresi, Carlo Buccirosso, Galatea Ranzi , durata 142’, nelle sale dal 21 maggio 2013, distribuito da Medusa

Recensione di Luca Marchetti

Proprio mentre stiamo scrivendo, a Cannes la giuria presieduta da Steven Spielberg sta consegnando i premi della 66°edizione del Festival del Cinema, ignorando completamente, nonostante fosse uno dei più quotati alla vigilia, La grande bellezza, l’ultima fatica di Paolo Sorrentino.

Questo risultato farà contenti i molti giornalisti italiani, Dagospia più di tutti, che hanno da subito criticato aspramente la pellicola, ma non possiamo non considerarlo un duro colpo per il Cinema Italiano.

La grande bellezza, infatti, con i suoi limiti e i suoi pregi, è quel genere di film, coraggioso, che raramente si produce in Italia, un’opera con una forza tale che lo spettatore volente o nolente non può rimanere indifferente.

Sorrentino, sin dal suo incredibile esordio con L’uomo in più (pellicola da recuperare e rivalutare), ha messo in chiaro la sua volontà di non limitarsi mai alla scelta più banale, all’inquadratura meno sensazionale. Chiamatela arroganza o superbia (nelle tragedie greche si chiamava hybris ed era punita con la morte) ma è stato questo lo stimolo che ha permesso al regista napoletano di mettere in scena operazioni sempre più ambiziose, per temi, concetti e movimenti di cinepresa.

Sorrentino è arrivato cosi, con nonchalance, a raccontare la vita di Andreotti, a  confrontarsi da pari a pari con il cinema americano e, questa volta, a girare un film che racchiudesse l’anima della Città Eterna.  Già dalla anteprima del film si è partiti con il gioco dei paragoni, citando a sproposito Fellini, Flaiano, Bunuel, Celine e Malick, facendo finta di non capire che La grande bellezza è qualcosa di diverso.

Sorrentino, nel riprendere Roma in tutta la sua opulenta bellezza, non vuole fare un ritrattino moraleggiante sulla grandezza perduta della caput mundi, piuttosto il suo obiettivo è di arrivare al cuore di una città, e di una nazione intera, e di scoprirlo irrimediabilmente vuoto.  La sua Roma del centro storico crepuscolare, delle feste sfrenate sugli attici vista Colosseo, dei trenini a ritmo di salsa che non portano da nessuna parte, non pretende mai di essere una testimonianza da documentario ma è, invece, il simbolo definitivo dei nostri tristi tempi.

A guidarci in questo mondo disumano, il regista chiama un cicerone speciale, Jep Gambardella, scrittore dall’immenso talento sprecato, con il quale giriamo nelle notti malate capitoline. Figlio prediletto, anche se adottivo, di questa laida Mamma Roma, Jep non smetterà mai di ballare, nemmeno di fronte all’uscita di scena dei suoi cari (due simboli di romanità come Carlo Verdone e Sabrina Ferilli, perfetti nei loro piccoli ruoli), entrambi sconfitti in un gioco che non prevede altro che la vacuità. E’ proprio per questo che il nostro eroe, interpretato da un Toni Servillo incredibile come sempre, pur con tutti i suoi dubbi e tutti i suoi anni, decide di rimanere il re di questa corte dei miracoli.

Convivendo per sempre con quei ricordi di un’innocenza giovanile, o forse di un’altra possibilità di vita, che rimarranno ormai malinconiche ferite passate in un presente fatto di nulla che non porterà ad alcun futuro.

Paolo Sorrentino, in tanto disperato ritratto non è esente dal compiere errori. I difetti sono evidenti come gli effetti speciali oggettivamente brutti, la lunghezza eccessiva (ci sono quasi venti minuti di troppo) e diverse scelte narrative pleonastiche.

Come si dice, però, solo chi si mette in gioco sbaglia. E allora ben vengano registi con questo talento, con questi errori, con questo coraggio e con questa presunzione, che non li fanno mai accontentare della banalità.

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