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Mercoledì, 03 Lug 2024

Breve trattato sulla decrescita serena e Come sopravvivere allo sviluppo, di Serge Latouche, Editore Bollati Boringhieri, Torino, 2015, pp.199, euro 16.

Recensione di Roberto Tomei

Già tradotti e pubblicati in Italia, il primo nel 2007 e il secondo nel 2004, con un grande successo di pubblico, che ha mostrato di apprezzare l’approccio originale dell’autore, questi due testi sono stati ora opportunamente riproposti insieme dall’editore, in quanto rappresentano la summa del pensiero di Latouche, giustamente definito il più autorevole critico dello sviluppo.

Il presupposto da cui parte il pensatore d’Oltralpe è che di fronte alla globalizzazione (i francesi, come lui, sempre ostili agli anglicismi, la chiamano mondializzazione) occorre rimettere l’economia al suo posto, “come semplice mezzo della vita umana e non come fine ultimo”, rinunciando alla folle corsa verso il consumo. Ciò non può avvenire se non attraverso una decolonizzazione dell’immaginario e una de-economizzazione degli spiriti. Viceversa, finora gli uomini si sono rifiutati di fare la vera diagnosi della malattia, accontentandosi di mascherare i sintomi e cercando dei rimedi nell’aggravamento del male stesso. La crescita, infatti, è, per il Nostro, al tempo stesso un virus perverso e una droga.

Chernobyl, la mucca pazza, l’effetto serra e quant’altro si potrebbe elencare dovrebbero costituire potenti spinte alla riflessione, condizioni necessarie perché le alternative possano farsi luce e trionfare, recuperando innanzitutto quell’equilibrato rapporto con la natura che la modernità ha eliminato, negando la capacità di rigenerazione della natura stessa, riducendo le risorse naturali a materie prime da sfruttare e non considerandole invece come “fonti di vita”.

Latouche indica così nel vivere all’eccesso il nostro vizio capitale, che prima o poi finirà per perderci. Invece di seguire il monito scritto sul tempio dell’oracolo di Delfi, ossia “Nulla di troppo”, il troppo è diventato il simbolo dell’umanità (ormai non solo in occidente). Troppo di tutto: di produzione, consumo, disoccupazione, disuguaglianza, inquinamento, ecc. E ciò, intanto, è potuto accadere in quanto l’umanità si è fatta governare dalla sola idea-guida della crescita, dea ispiratrice dell’ultraliberismo del capitale globalizzato come del produttivismo del socialismo reale.

Anche nella sua versione cosiddetta “sostenibile”, l’ideologia “sviluppista” è, comunque, da rifiutare. Sicché l’unica alternativa percorribile è quella di una società governata dalla decrescita, caratterizzata da un rilancio degli aspetti conviviali dell’esistenza, dalla fine della depredazione della natura, dall’instaurazione di un proficuo e sano rapporto con il Sud del mondo. Fino a quando non imboccheremo questa strada, l’eccesso di benessere si risolverà nell’eccesso di malessere.

Nel panorama dei cultori della scienza triste, come Thomas Carlyle definiva l’economia, Latouche, per le sue idee “rivoluzionarie”, costituisce una figura di indubbio fascino. Peccato che per attuare il suo programma  l’umanità non sia ancora pronta: da un lato, le classi dominanti proprio non ci pensano a ridurre i loro profitti; dall’altro, coloro che sono abituati al benessere o vi si stanno avvicinando ora non sono affatto disposti ad abdicare al loro ruolo di “consumatori”.

L’”eccesso”, insomma, continua a farla da padrone.

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