Suffragette, di Sarah Gavron, con Carey Mulligan, Helena Bonham Carter, Meryl Streep, Brendan Gleeson, Natalie Press, Anne-Marie Duff, Ben Whishaw, durata 106’, nelle sale dal 3 marzo 2016, distribuito da BIM.
Recensione di Luca Marchetti
Dopo il passaggio al Festival di Torino, arriva nelle sale italiane Suffragette, il nuovo film della regista inglese Sarah Gavron, che possiamo definire una pellicola importante non per le qualità tecniche o estetiche del prodotto ma per la storia che vuole a tutti i costi raccontare.
Il film della Gavron, autrice di chiare e manifeste simpatie laburiste, infatti, si concentra sulle lotte di decine di donne che, nella Londra dei primi anni del novecento, scelgono la disobbedienza civile e il sabotaggio per raggiungere il proprio scopo: il voto alle donne. Suffragette narra così il calvario e l’impegno di Maud Watts, operaia di una lavanderia, che stanca delle vessazioni dei suoi datori di lavoro e di una società sorda alle richieste di maggiore dignità anche per le lavoratrici, decide di sacrificare tutto, persino la sua famiglia, per abbracciare la Causa.
La Gavron, dunque, guarda alle battaglie quotidiane e sconosciute di tante piccole working class heroine, piuttosto che alle grandi leader del movimento (l’attivista Emmeline Pankhurst, interpretata da Meryl Streep, è più un commovente cammeo che un ruolo strutturato), restituendo alla causa delle suffragette una dimensione incredibilmente umana e vicina.
La Londra del film è una città sporca e violenta e le sue protagoniste non possono non essere che persone comuni, sgraziate, autenticamente reali.
È su questa attualizzazione e demitizzazione della Causa, che si muove l’interpretazione della protagonista Carey Mulligan, attrice ancora capace di sorprendere. La sua Maud è una donna che, in un narrativamente perfetto percorso di radicalizzazione politica, è sempre in un perfetto ma fragile equilibrio tra la madre e la militante, credibile nella dimessa dimensione dell’operaia pronta a non sopportare nessun’altra angheria.
Se le interpretazioni e la ricostruzione storica sono più che riuscite, a mancare alla pellicola è, però, qualcosa che va oltre le qualità tecniche o i buoni propositi narrativi. L’autrice, infatti, forse troppo interessata (giustamente, ci sentiamo di dire) a restituire alle sue sconosciute e valorose eroine il loro meritato momento di gloria (in un contesto contemporaneo dove ancora la parità di diritti è considerata come non prioritaria e facoltativa), perde l’occasione per dare uno sguardo in profondità su questa storia particolare.
La Gavron, infatti, sembra preferire il superficiale e manicheo bignami storico, con una corretta ma banale cronaca (anche cruda) dei fatti, al più viscerale e passionale racconto personale. Con questa scelta concettuale, il film si rivela, al di là dei suoi oggettivi meriti pedagogici, un’opera onesta e sincera ma priva di quel quid che permetta ad essa di diventare qualcosa di duraturo.
In definitiva, un compito ben svolto e dalle ottime premesse, che farà fatica a uscire dai confini delle cinematografie tematiche.