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Giovedì, 04 Lug 2024

L’importante è vincere, di Eva Cantarella e Ettore Miraglia, editore Feltrinelli, Milano, 2016, pp.156, euro 14.

Recensione di Roberto Tomei

Alle Olimpiadi degli antichi si andava per vincere, non per partecipare, come avrebbe detto molto tempo dopo, per l’esattezza nel XIX secolo, de Coubertin, che amava i Greci ma non doveva conoscerli bene, ci dicono i due autori. E, in effetti, dalle fonti a nostra disposizione, tutto lascia intendere che i greci, quando gareggiavano, non pensassero ad altro che alla vittoria e che mai avrebbero capito la frase del barone francese.

Anche oggi gli atleti puntano a vincere ma al tempo dei greci vincere era sentito come un dovere che si inscriveva in un’etica, sin dalle origini, di tipo competitivo, che incitava a essere “il migliore e il più bravo”.

Ma la forza, virtù descritta come la più nobile, da sola non bastava, poiché, secondo i loro valori, un greco doveva possedere anche coraggio ed eloquenza: “E come la vittoria era il segno del valore, così la sconfitta lo era dell’inadeguatezza e della vergogna che ne conseguivano”. In un tale contesto culturale, si capisce come alle Olimpiadi (che si svolgevano in estate, tra fine luglio e inizio settembre) ciascuno cercasse di vincere, così da acquistare onore e gloria per sé e per la propria città. Ideali, questi, che sarebbero venuti meno soltanto con la comparsa dei cosiddetti professionisti, ai quali la vittoria poteva veramente cambiare la vita, grazie all’introduzione dei premi in denaro.

Quel che è certo è che sin dall’inizio c’erano giudici severi, ma anche che scorrettezze e brogli sono sempre esistiti, anzi proprio uno di questi sarebbe all’origine delle Olimpiadi, come si racconta nella “Biblioteca” di Apollodoro. Quanto alle donne, ad esse non era concesso di partecipare ai Giochi olimpici, anche se esistevano gare di corsa riservate al sesso femminile, come le famose Heraia, che si svolgevano in parallelo alle Olimpiadi e avevano anche carattere agonistico, laddove nelle altre gare le donne dovevano solo dimostrarsi degne del nome e del ruolo di moglie.

I Giochi olimpionici rinascono nel 1896 ad Atene, in quella Grecia dove erano nati duemila e cinquecento anni prima e a reinventarli è Pierre de Coubertin, un parigino nato da ricca, cattolica e aristocratica famiglia. Pochi anni prima, l’archeologo tedesco Curtius aveva scoperto il sito di Olimpia, un ritrovamento che contribuì ad alimentare la competizione dei francesi con i poco amati tedeschi. E, invero, nonostante gli auspici che i Giochi potessero aiutare le nazioni a vivere in pace, sin dall’inizio il Comitato olimpico internazionale fu costretto a fare i conti con le ostilità tra i diversi paesi e le guerre, che hanno spesso avuto conseguenze sull’andamento dei Giochi, sia in termini di Olimpiadi mancate (Berlino 1916, Tokyo 1944, Londra 1948) che di boicottaggi (Montreal 1976, Mosca 1980, Los Angeles 1984).

Tornati i Giochi, tornarono comunque anche i “furbetti” delle Olimpiadi, frutto anche dell’esasperazione raggiunta dallo sport moderno: “un meccanismo perverso e ipocrita nel quale gli atleti sono l’anello debole: da un lato si chiedono loro prestazioni folli, al limite delle possibilità umane (se non oltre), dall’altro si è pronti a indignarsi se i concorrenti imbrogliano”. Tutto per vincere, altro che partecipare, come predicava de Coubertin.

Completano il volume, una raccolta di storie parallele, in cui campioni dell’antichità vengono accostati a campioni del presente, e un puntuale calendario delle gare di Rio de Janeiro.

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