L’ITALIANO alla prova dell’internazionalizzazione, a cura di Maria Agostina Cabiddu, prefazione di Francesco Sabatini, editore Guerini e Associati, Milano, pp.160, euro 15.
Recensione di Roberto Tomei
Dell’avventura della lingua italiana al tempo della globalizzazione il libro che qui si presenta è, come direbbe Sciascia, un apologo e un’apologia. In esso, infatti, si fa egregiamente il punto della nostra “servitù volontaria” nei confronti dell’inglese, soprattutto nelle materie scientifiche, dimentichi, come giustamente ci avvertono gli autori, che il successo dei laureati italiani all’estero non è mai dipeso dalla conoscenza dell’inglese quanto dalla qualità della loro formazione, da molti considerata ancora di tutto rispetto.
Così come, di contro a pretese ineluttabili necessità di “aprire le nostre Università a studenti stranieri”, da attuare col veicolo dell’idioma della regina Elisabetta, si ricorda che questa apertura è da tempo un dato di fatto, ma ciò non significa che essa debba avvenire attraverso l’inglese e non con l’italiano, in quanto gli stranieri che scelgono l’Italia sono presumibilmente interessati anche alla nostra cultura e alla nostra lingua. Non si capisce, perciò, perché rinunciarvi, tanto più che da parecchi anni a questa parte i governi che si sono succeduti hanno sempre avuto come obiettivo quello di interrompere se non di invertire la fuga dei cervelli all’estero, così da farli tornare nel nostro paese a restituirvi quanto da esso ricevuto.
Senza dimenticare, poi, che in quest’orgia di inglese, in realtà non proprio di inglese si tratta ma del cosiddetto globish, un minimo denominatore comune linguistico che è, nei fatti, poco più di un kit di sopravvivenza, buono solo per comunicare ma certo non adatto ad alzare il livello della formazione dal punto di vista dei contenuti trasmessi, laddove il numero delle parole usate è importante in ogni senso, persino per la conservazione e lo sviluppo della democrazia.
L’università, infatti, non deve servire solo per trovare un lavoro, ma anche per educare, sicché è bene che l’insegnamento continui a svolgersi, ex lege n.482/1999, nella lingua ufficiale (l’italiano), affinché i suoi contenuti possano diventare patrimonio della collettività nazionale.
Il libro ammonisce così che dal trionfo esclusivo dell’inglese l’italiano sarebbe ridotto a un arcaico dialetto, con esiti devastanti, come la concentrazione del sapere ai vertici e l’aumento dell’incomprensione tra pubblico e scienza: danni, tutti, che nemmeno lontanamente si può pensare di compensare con l’eventuale più alto afflusso di studenti stranieri.
Per fortuna, sulla questione è intervenuta di recente una saggia sentenza della Corte costituzionale, da noi a suo tempo commentata,e giustamente riportata in appendice al volume, che rappresenta un eccellente punto di equilibrio su un argomento così delicato, del quale in questo libro sono stati ampiamente e approfonditamene analizzati tutti i risvolti.