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Mercoledì, 03 Lug 2024

di Roberto Tomei

Anche se lentamente, sembrano stringersi le maglie in materia di incompatibilità dei pubblici ufficiali, categoria, parecchio affollata, in cui sono stabilmente collocati i componenti delle commissioni dei pubblici concorsi, che spesso e volentieri finiscono nell’occhio del ciclone e vengono sottoposti al giudizio della magistratura.

Nel linguaggio comune, incompatibile é ciò "che non si può tollerare o giustificare "ovvero" che non si può conciliare, accordare con altra cosa".

Transitando nel campo del diritto, il termine, solitamente riferito a incarichi (o cariche, che dir si voglia), conserva sostanzialmente il suo significato, sicché sono incompatibili quegli incarichi che non possono essere assunti dalla stessa persona.

Certamente sarebbe meglio che ciascuno sapesse quando sta per cacciarsi in una situazione di incompatibilità, così da poterla evitare. Sembra però che non tutti riescano a rendersene conto.

Quando a non capirlo è un giudice, che pure di queste situazioni dovrebbe intendersene, per farglielo comprendere può diventare necessario sollecitare l'intervento di altri giudici.

E' proprio quello che è accaduto nel caso che esponiamo, nel quale è stata tirata in ballo addirittura la Corte di cassazione, a sezioni unite.

Questa, con una recente sentenza (n.19704/2012), ha stigmatizzato l'operato di un giudice che aveva "trattato e deciso con sentenza", per di più in composizione monocratica - vale a dire facendo tutto lui, da solo - una controversia in cui era parte una società col cui amministratore aveva "un rapporto quarantennale di amicizia e frequentazione" e alle dipendenze della quale per ben nove anni aveva lavorato la figlia.

Proprio il non aver prestato la dovuta attenzione a nessuna di tali circostanze è stata la causa dell'intervento degli Ermellini di piazza Cavour, che non si sono fatti scappare l'occasione per ridefinire i labili confini della ineffabile nozione di incompatibilità, cui inesorabilmente consegue l'obbligo per il giudice di astenersi.

Tale obbligo, ha precisato la Corte,"sussiste non soltanto nei casi indicati specificamente dall'art. 51 c.p.c., comma 1, bensì in tutti i casi nei quali sia ravvisabile un interesse proprio del magistrato, o di un suo prossimo congiunto, a conseguire un ingiusto vantaggio patrimoniale o a farlo conseguire ad altri, o a cagionare un danno ingiusto ad altri", obbligo che discende dall'art.323 c.p..

Dove con l'espressione "omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto", continua la Corte, "l'art. 323 c.p. ha fondato un dovere generale di astensione in ipotesi che configuri oggettivamente un conflitto, anche solo potenziale, di interessi ", così dando compiuta attuazione al dettato contenuto nell'art. 97 Cost.

In virtù di tale esplicito richiamo all'art.97, l'obbligo di astensione - a scanso di equivoci - oltre i giudici, deve ritenersi vincolante per ogni pubblico ufficiale, compresi i membri delle commissioni esaminatrici dei concorsi pubblici, ai quali non infrequentemente partecipano come candidati allievi o stretti collaboratori dei membri medesimi.

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