Con un articolo pubblicato sul Foglietto del 31 maggio del 2011, avevamo accolto con favore la decisione del giudice del lavoro presso il Tribunale di Trento che, in sede cautelare, aveva ritenuto illegittimo il provvedimento di un’amministrazione pubblica, che aveva unilateralmente, senza alcun consenso da parte del lavoratore, trasformato a tempo pieno il rapporto di lavoro part time.
L’amministrazione, per giustificare il proprio operato, aveva richiamato sia il decreto legge 112/2008, che aveva trasformato il diritto al part time in una possibile concessione da parte del datore di lavoro, che la successiva legge 183/2010 (c.d. collegato lavoro), che aveva autorizzato i datori di lavoro a riesaminare, entro 180 giorni dall’entrata in vigore della legge stessa, i provvedimenti di concessione del part time adottati prima dell’entrata in vigore del decreto 112.
Ad avviso del Tribunale, il decreto legge emanato dal governo Berlusconi violava la direttiva europea 97/81/CE.
A distanza di più di tre anni è giunto il responso della Corte di giustizia europea che, con la sentenza relativa alla causa C-221/13, pubblicata il 15 ottobre scorso, accogliendo le conclusioni dell’avvocato generale, ha stabilito che il datore di lavoro ben può obbligare i lavoratori part time a passare al tempo pieno, senza che vi sia violazione di principi comunitari.
La decisione della Corte Ue lascia perplessi, soprattutto perché lo spirito della direttiva europea era quello di escludere ogni e qualsiasi discriminazione nei confronti del lavoratore part time rispetto a quello a tempo pieno, senza peraltro dimenticare che il datore di lavoro ben può, senza alcun aggravio di spesa, assumere un altro dipendente part time, per compensare l’assenza parziale (non retribuita) dell’altro lavoratore.