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Mercoledì, 03 Lug 2024

Con una recente sentenza (sez. V del 4 dicembre scorso), la Corte di Cassazione ha affermato che, in concorso di particolari circostanze, apostrofare qualcuno con il vocabolo “pazzo” non integra il reato di ingiuria di cui all’art. 594 del codice penale.

Sbaglierebbe, tuttavia, chi ritenesse che con la loro pronuncia gli Ermellini abbiano inteso rilasciare una sorta di generale “licenza di offendere”. Ed infatti, se è vero che ci troviamo senz’altro di fronte a un caso di interpretazione evolutiva, è altrettanto vero che non si può cogliere la giusta portata della decisione del giudice di legittimità se non la si colloca entro i suoi esatti limiti, che meglio non avrebbero potuto essere precisati.

Nella fattispecie, l’indubbia carica offensiva dell’espressione “pazzo” non costituisce ingiuria, in quanto - argomenta la Suprema Corte - “la frase incriminata non si è tradotta in un oggettivo giudizio di disvalore sulle qualità personali dell’offeso, considerato il contesto di conflittualità nel quale è stata pronunciata e la forma interrogativa adoperata dall’imputata”.

In sostanza, acquistando il valore di vere e proprie scriminanti, sono state tali circostanze a far perdere all’espressione, di per sé disdicevole, la sua potenzialità lesiva.

Certamente, nell’escludere ogni automatismo tra l’espressione in questione e il reato di ingiuria, la Corte di Cassazione ha mostrato anche di prendere atto che un linguaggio più disinvolto, persino più aggressivo di quello usato in precedenza, caratterizza oggigiorno i rapporti interpersonali, derivandone un mutamento della sensibilità e della coscienza sociale ormai accettato dalla maggioranza dei cittadini.

Sotto quest’ultimo, rilevantissimo profilo, va sottolineato che gli Ermellini hanno di recente dato prova di una certa linea “aperturista”, assolvendo un uomo che aveva dato dell’esaurita a una vicina, ammettendo che una suocera venisse apostrofata come vipera e derubricando addirittura pure il “vaffa”, considerandolo ormai entrato nell’uso comune.

Come per il caso in commento, anche le decisioni che hanno avuto tali esiti vanno naturalmente lette e analizzate in tutti i loro risvolti, ma è difficile sostenere che esse non siano l’inequivocabile dimostrazione di come la figura juris dell’ingiuria sia ormai diventata oggetto di una profonda rivisitazione diretta a meglio coerenziarla al mutato contesto sociale.

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