Con sentenza n. 2618/2025, pubblicata lo scorso 4 febbraio, la Corte di cassazione - sezione Lavoro – ha respinto il ricorso di un lavoratore dipendente avverso la decisione n.837/2023 della Corte di Appello di Roma, di conferma della sentenza del Tribunale con la quale era stata respinta
la domanda del lavoratore ricorrente per l'accertamento della illegittimità del licenziamento per giusta causa, intimato al medesimo dalla società datrice di lavoro, per avere, durante il periodo di congedo parentale retribuito ex art. 32 D.Lgs. n 151/2001, svolto attività lavorativa di compravendita di autovetture, in conflitto con le finalità per le quali era stato concesso il congedo stesso.
La Corte territoriale, nel condividere la valutazione del Tribunale di primo grado, “ha ritenuto provata la condotta oggetto di addebito emersa all'esito di verifica effettuata dall'agenzia investigativa” incaricata dalla società datrice di lavoro, e ha riscontrato “che la agenzia in questione era titolare della relativa licenza prefettizia e che in osservanza dell'art. 5 del decreto del Ministero dell'Interno n. 269/2010 aveva ritualmente comunicato alla Prefettura il nome del collaboratore del quale si avvaleva per le investigazioni, che era colui che nello specifico aveva materialmente svolto l'attività di indagine”.
In particolare, per i Giudici dell’appello, lo svolgimento da parte del dipendente di attività lavorativa “né saltuaria, né episodica, si poneva in contrasto con le finalità del congedo parentale retribuito le quali postulano che durante la sua fruizione, i tempi e le energie del padre lavoratore siano dedicati, anche attraverso la propria presenza, al soddisfacimento dei bisogni affettivi del minore. La condotta del dipendente si configurava quindi quale abuso del diritto al congedo parentale per sviamento della relativa funzione e giustificava l'adozione della sanzione espulsiva venendo in rilievo un comportamento che oltre che contrario ai principi di correttezza e buona fede, era connotato da evidente disvalore, anche sociale”.
I Giudici della Suprema Corte, disattesi tutti i motivi del ricorso proposto dal lavoratore avverso la citata sentenza della Corte d’Appello, hanno evidenziato, tra l’altro, che “la condotta accertata, oltre a costituire grave violazione del dovere di fedeltà gravante ex art. 2105 c.c. sul lavoratore, si connota per il suo particolare disvalore sociale alla luce delle specifiche finalità in relazione alle quali è modulato l'istituto del congedo parentale ed ai sacrifici e costi organizzativi che impone alla parte datoriale a fronte dell'esercizio di tale diritto potestativo da parte del titolare”.
In conclusione, ricorso rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese di lite.
Rocco Tritto
giornalista pubblicista