Come noto, è in vigore dal 1° gennaio la legge finanziaria 2017, licenziata con l'ennesimo voto di fiducia e scritta da un governo messo alla porta dagli italiani. Un provvedimento che, tra le altre cose, prevede un consistente sconto fiscale a quanti faranno rientrare i capitali illecitamente inviati all'estero, perlopiù in paradisi fiscali.
Una pratica, quella dell'esportazione di capitali, assai in auge tra evasori e detentori di ricchezze di provenienza illecita, che sottrae gettito fiscale indispensabile per erogare servizi ai cittadini, per contrastare la povertà e ridurre le disuguaglianze.
Qualche settimana fa, è stato pubblicato il rapporto Battaglia fiscale, a cura di Oxfam, una confederazione internazionale di 20 organizzazioni che lavorano in rete in oltre 90 Paesi al fine di “costruire un futuro libero dall’ingiustizia della povertà”.
Il rapporto smaschera i paradisi fiscali societari più aggressivi al mondo, “esempi estremi di una deleteria corsa al ribasso nella tassazione d’impresa che induce i governi a ridimensionare drasticamente le imposte societarie nel tentativo di attrarre investimenti”. Il documento “fa appello ai governi affinché pongano fine a questa corsa al ribasso e all’esistenza stessa dei paradisi fiscali che esasperano la disuguaglianza e la povertà su scala globale”.
Il risultato di queste politiche di detassazione è che, nel 2015, appena 62 individui possedevano una ricchezza netta pari a quella della metà più povera della popolazione mondiale (3,6 miliardi di persone). Un dato che ci ricorda che alla base della crisi economica, da cui non riusciamo ad uscire, c'è una crescente disuguaglianza, che impedisce la crescita economica e la lotta contro la povertà.
I paradisi fiscali societari più aggressivi al mondo, quelli che favoriscono le forme più estreme di abuso fiscale, sono 15. Paesi che bilanciano la riduzione del carico fiscale per le grandi imprese, tagliando le spese per i servizi pubblici indispensabili per ridurre la disuguaglianza e la povertà, oppure aumentando le imposte come l'Iva e la tassazione sui redditi a carico delle fasce sociali meno abbienti. Come accade, ad esempio, nei paesi dell’Africa sub-sahariana dove le imposte indirette che gravano sui più poveri costituiscono il 67% del gettito fiscale e colpiscono maggiormente le donne.
Viceversa, i maggiori profitti delle imprese derivanti da una minore imposizione fiscale vanno a beneficio degli azionisti delle grandi società, accentuando ulteriormente il divario tra ricchi e poveri. In dieci anni, le aliquote fiscali applicate agli utili d’impresa sono scese da una media mondiale del 27,5% all’attuale 23,6%. E nei Paesi del G20 l’aliquota fiscale media applicata ai redditi societari è passata dal 40% del 1990 a meno del 30% di oggi. Secondo l'Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), nei paesi aderenti, nel periodo 2007-2014, le entrate medie generate da redditi e profitti societari sono scese dal 3,6% al 2,8% del PIL.
I governi che praticano una politica di riduzione delle imposte a carico delle grandi imprese pensano che in tal modo riusciranno ad attrarre capitali esteri. Ma non è così, secondo il Rapporto sulla Competitività Globale del Forum Economico Mondiale, i capitali vengono attirati dalla qualità delle infrastrutture, dalla disponibilità di forza lavoro qualificata e sana, dalla stabilità sociale. Tutti elementi per garantire i quali la contribuzione fiscale d’impresa è vitale. Tagli alle aliquote e incentivi fiscali accompagnati, quasi sempre, dalla mancanza di regolamentazione e trasparenza, immancabilmente danno adito ad abusi e corruzione, specie nei Paesi in via di sviluppo.
Negli ultimi trent’anni, mentre i profitti netti dichiarati dalle più grandi imprese mondiali si andavano triplicando, passando dai 2.000 miliardi di dollari del 1980 ai 7.200 miliardi del 2015, la contribuzione fiscale delle stesse imprese scendeva vertiginosamente, grazie ai paradisi fiscali. Il 90% delle più grandi multinazionali ha una presenza in almeno un paradiso fiscale. Una pratica che, secondo la United Nations University danneggia, innanzitutto, i paesi più poveri. Infatti, è più probabile che le imprese di questi paesi trasferiscano i propri profitti all’estero in risposta agli incentivi.
Grazie all'elusione fiscale, le imprese multinazionali sottraggono annualmente ai Paesi in via di sviluppo circa 100 miliardi di dollari e Action Aid stima che gli stessi Paesi perdano ulteriori 138 miliardi a causa degli incentivi fiscali offerti sempre alle grandi imprese.
Ma c'è di più, la possibilità di trasferire profitti nei paradisi fiscali danneggia anche i paesi ricchi perché potrebbe essere un fattore chiave del recente aumento di “depositi dormienti”, ossia di denaro non reinvestito nell’economia bensì tenuto in riserve occulte.
Tenendo conto dell’aliquota sui redditi societari, degli incentivi fiscali offerti e della mancanza di cooperazione internazionale in materia di contrasto all’elusione fiscale, i 15 paradisi fiscali societari più aggressivi al mondo sono: Isole Bermuda (dove si applica un'aliquota dello 0% sui redditi societari) e Cayman, Paesi Bassi, Svizzera, Singapore, Irlanda, Lussemburgo, Curaçao, Hong Kong, Cipro, Bahamas, Jersey, Isole Barbados, Mauritius e Vergini britanniche.
Le misure Ocse, come il Piano d’azione BEPS (Base Erosion and Profit Shifting, erosione della base imponibile e trasferimento degli utili) sono incapaci di contrastare le agevolazioni fiscali, di arrestare la riduzione concorrenziale delle aliquote e l’elusione fiscale da parte delle imprese. Tant’è che dopo la loro introduzione, l'accelerazione nella corsa al ribasso sulle aliquote fiscali sui redditi d’impresa è continuata e vede in testa anche Paesi europei come i Paesi Bassi, il Lussemburgo, l'Irlanda e Cipro.
Per uscire da questa situazione, Oxfam propone che si facciano accordi internazionali in cui si prevedano riforme fiscali volte a porre fine alla corsa a ribasso nella tassazione d‘impresa. Creare un organismo intergovernativo in materia fiscale che guidi e coordini la riforma della fiscalità internazionale, in cui siano coinvolti pariteticamente tutti i Paesi. Redigere una lista chiara dei paradisi fiscali più aggressivi, in base a criteri oggettivi per sanzionarli. E poi, “in via nettamente prioritaria tutti i Paesi devono implementare norme stringenti sulle società controllate estere che impediscano alle multinazionali con sede nel loro territorio di trasferire in modo fittizio i propri profitti nei paradisi fiscali”. Aiutare i “paradisi fiscali a trasformarsi in economie più eque, sostenibili e diversificate”. Ovunque “le aliquote fiscali sui redditi d’impresa devono essere fissate ad un livello equo, progressivo e che contribuisca al bene comune” e “tutte le esenzioni fiscali devono essere abolite laddove non vi siano chiare prove della loro efficacia”.
Ma, soprattutto, occorre che le imprese multinazionali siano trasparenti non solo in materia di bilanci, ma anche “riguardo alla propria struttura e attività imprenditoriale, alla propria condotta fiscale e ai processi decisionali in materia di tassazione”. Inoltre, è necessario che esse valutino e rendano pubblico “l’impatto fiscale, economico e sociale delle proprie decisioni e pratiche fiscali”; adottino “provvedimenti monitorabili per migliorare l’impatto della propria condotta fiscale dal punto di vista dello sviluppo sostenibile”. Infine, siano trasparenti nelle relazioni con le proprie società controllate estere.
Per invertire la rotta in materia di politiche fiscali sulle società, occorre una maggiore cooperazione tra tutti i Paesi, e le istituzioni - come Onu, Fmi, Banca Mondiale e Ocse - devono impegnarsi per promuovere accordi internazionali atti a ridurre la corsa al ribasso in materia di tassazione d’impresa e per garantire che le compagnie assolvano i propri obblighi fiscali in misura equa e progressiva.