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Mercoledì, 24 Apr 2024

La riforma Fornero continua a dispiegare tutti i suoi effetti catastrofici sul sistema economico italiano – bloccando, al momento, l’ingresso dei giovani sul mercato del lavoro e, in futuro, determinando il fallimento del sistema pensionistico italiano – e sulla memoria di coloro che la votarono o la sostennero ma oggi, per meri fini elettoralistici, la criticano aspramente.

E così, recentemente, quando si è trattato di allungare ulteriormente l’età per andare in pensione sulla base di un cervellotico ricalcolo della speranza di vita, più di uno ha chiesto di non approvare un nuovo scalone di 5 mesi. Ma il governo “responsabile” - rispettando il gioco delle parti - ha decretato che dal 2019 si potrà andare in pensione di vecchiaia a 67 anni di età o in pensione “anticipata” gli uomini con 43 anni e 3 mesi, le donne con 42 anni e 3 mesi di contributi.

Un gioco delle parti cui avevamo assistito già sul finire del 2011, ricorderete la Lega sulle barricate e Berlusconi che il 5 agosto 2011 riceve la famosa lettera - firmata dal presidente uscente della Bce, Jean Claude Trichet, e dal suo successore, Mario Draghi, - con la quale, tra l’altro, gli si intima di varare la riforma sulle pensioni. Provvedimenti, quelli intimati dalla Bce, poi varati sì dal governo Monti, ma votati tanto da Forza Italia quanto dal Partito democratico.

Oggi i coccodrilli, per mere ragioni elettoralistiche, fra quanti votarono la legge Fornero sono molti. Fra i contrari allo scalone del 2019 v’è anche chi, non essendo in Parlamento nel 2011, l’endorsement alla riforma Fornero se lo poteva risparmiare: Matteo Renzi.

Luisella Costamagna, sul Fatto quotidiano del 19 maggio 2015, così ne ricostruiva le dichiarazioni: “La riforma Fornero è giusta, a parte gli esodati” (Ansa, 28 novembre 2012); “La riforma delle pensioni della Fornero è seria, quella del lavoro timida e inefficace. Bene sulle pensioni, maluccio sul lavoro” (Ansa, 29 novembre 2012); “La riforma Fornero andava bene, perderò qualche voto (Primarie 2013, ndr) ma lo dico. La riforma non era sbagliata ma va trovata una soluzione per gli esodati” (Ansa, 29 ottobre 2013).

Ma non basta, con numerose dichiarazioni ed anche durante il confronto per le primarie su Sky, nel 2012, Renzi disse: «Io sono uno di quelli che crede che la riforma delle pensioni della Fornero sia stata una cosa positiva».

Sia come sia, ai giudizi mutevoli sulla legge o sui suoi meccanismi fa da contraltare la certezza del suo fallimento. Anzi - come scientificamente ricostruito da Giovanni Mazzetti nel suo libro Contro la barbarie sulla previdenza, edizioni Asterios – del fallimento di quella scuola di pensiero che ha portato, dal 1992 (Riforma Amato) in poi, con ripetuti interventi legislativi, a demolire il sistema pensionistico retributivo a ripartizione in vigore nel nostro paese dal 1969 con la legge Brodolini.

Mazzetti, che è docente di Politica dello sviluppo economico all’Università della Calabria, non esita a definire Barbari i teorici del contributivo. ”Il barbaro non sa nulla di ciò che distrugge. Si limita ad essere prigioniero della sua rozza cultura … non sa nemmeno di distruggere”. Indifferente, “vede solo il lato limitativo delle istituzioni; crede così che sbarazzandosi di quegli istituti, che la sua ignoranza gli fa percepire come estranei al suo essere, si possa conquistare maggiore libertà”.

Sembra quasi il ritratto di un politico che ha avuto, in anni recenti, un ruolo di primo piano in Italia nella demolizione di quella cultura del lavoro su cui si basa la nostra Costituzione.

L’autore, dopo un lungo excursus sulla storia della previdenza e sulle dottrine economiche che l’hanno accompagnata, smonta le posizioni dei liberisti passati e odierni (anche di quelli mascherati da riformisti), usando tutti gli strumenti dell’analisi marxista e keynesiana e dimostra, con chiarezza, il fallimento delle riforme pensionistiche calate sui lavoratori italiani grazie anche allo stato ipnotico (e all’ignoranza) in cui versa la società e, in particolare, la sinistra italiana. Ignoranza, che porta a confondere “la previdenza moderna, un istituto scaturito dalle conoscenze economiche acquisite nel corso del Novecento, con la benevolenza e l’astratta solidarietà”.

La messa in discussione del welfare state e, in particolare, della previdenza come meccanismo di solidarietà e sviluppo, per Mazzetti, è dovuta al fatto che “il meccanismo del moltiplicatore – come Keynes aveva più volte sottolineato – agisce da volano dell’economia solo fintanto che la società è invischiata nella povertà”…”Compare così sulla scena lo spettro che verrà agitato per determinare la sconfitta dei sostenitori dello stato sociale keynesiano: il deficit, con il crescente debito che comporta”.

Anche la sinistra è incorsa in questo errore, classificando a sua volta il deficit come un’anomalia e non rendendosi conto che: ”se si fosse speso meglio, non solo si sarebbe garantita una migliore soddisfazione dei bisogni dei cittadini, ma ne sarebbe derivato anche un riequilibrio dei conti pubblici” e che “ogni taglio della spesa pubblica ... ha l’effetto di far decrescere il PIL”. Come è accaduto con le politiche del governo Monti.

Il vero momento di caduta delle politiche sociali, per l’autore, si è avuto quando i governi non hanno più potuto essere affiancati dalle banche centrali per attuare le politiche economiche del pieno impiego e sono dovuti ricorrere al mercato privato per finanziarsi. Da quel momento, non solo è aumentata l’imposizione fiscale, passata da una media del 25% nel periodo 1945-80 all’attuale 40%, ma è cresciuto anche il debito pubblico in rapporto al PIL e, con esso, gli interessi passivi che i cittadini devono corrispondere sul debito, cosicché, “più di un anno e mezzo del lavoro complessivo del paese degli ultimi trent’anni è servito esclusivamente a corrispondere interessi ai rentiers”. La situazione, poi, è ulteriormente precipitata, a causa della speculazione finanziaria spintasi fino alla dematerializzazione dell’economia.

Il processo di smantellamento del vecchio sistema previdenziale si è basato su una serie di falsi presupposti, oggi diremmo fake news, “anatemi” li definisce l’autore. Abbiamo abbandonato il sistema a ripartizione, dimenticando che si era approdati ad esso dopo il fallimento dei fondi pensione in America e che quel sistema aveva avuto importanti effetti moltiplicativi sull’economia, per far sì che ogni lavoratore potesse contare solo sui soldi accantonati con i propri contributi.

Il risultato è che dalle riforme degli ultimi decenni non è derivato alcun miglioramento della situazione economica. Con l’allungamento della vita lavorativa si è poi precluso l’accesso al mercato del lavoro ai giovani, così portando la disoccupazione giovanile al 40%.

Si è detto che le nuove generazioni non devono e non possono mantenere chi è in pensione, ingenerando una guerra fra vecchi e giovani, dimenticando che gli interessi dei giovani e quelli degli anziani sono complementari: “se si fa sparire o si riduce drasticamente il reddito dei pensionati, si cancella uno dei presupposti del lavoro ai giovani, corrispondente alla domanda degli anziani”.

Alle controriforme si è data pure una falsa giustificazione demografica, parlando di baby sboom rispetto agli anni ’60, una decrescita che, in realtà, c’era stata proprio in quegli anni, rispetto al periodo antecedente la guerra, quando si è scesi dal 23 al 19,16 per mille.

L’altra bufala sulla quale si sono basate le riforme pensionistiche è il calo di produttività del lavoro: basta guardare all’agricoltura, dove essa è cresciuta di 15 volte rispetto al passato, o all’industria, dove la crescita, a prezzi costanti, dal 1950 al 2010, è stata di 8 volte, per questo “c’è bisogno di un processo di razionale organizzazione del processo riproduttivo complessivo”, che garantisca non solo il diritto al lavoro ma anche quelli allo studio, ad un ambiente sano, alla salute, alla casa, ecc.

Infine, Mazzetti boccia le proposte di reddito di cittadinanza perché “la via d’uscita dalla crisi sta nell’attuazione di quel diritto che la nostra Costituzione pone a fondamento della società, cioè il “diritto al lavoro” … questo diritto può essere oggi garantito, come Keynes aveva anticipato, solo con la redistribuzione del lavoro tra tutti a parità di salario”. Come? Riducendo drasticamente l’orario individuale di lavoro, una cosa possibile, considerate le innovazioni che intervengono nei processi lavorativi aumentandone la produttività.

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