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Domenica, 28 Apr 2024

È delle settimane scorse l’ennesimo scandalo urbanistico della storia della Roma moderna: il costruttore Parnasi che, per realizzare lo stadio della A.S. Roma, pagava, come ha dichiarato ai magistrati inquirenti, esponenti di tutte le forze politiche su piazza.

Nulla di nuovo, non è il primo che sopravvive pagando i politici di turno.

Dello stadio romano ci eravamo già più volte occupati il 16 febbraio e il 9 marzo scorsi.

Sono anni ormai che il mondo del mattone, e non solo romano, sopravvive grazie a prestiti e mutui bancari che vengono confermati e moltiplicati solo in presenza di nuove concessioni edilizie.

Con la crisi ed il conseguente crollo delle vendite (a Roma, secondo alcune stime, ci sarebbero ben 250mila abitazioni invendute), il meccanismo si è inceppato, e allora, quale miglior lubrificante di uno stadio per il club sportivo più amato della città?

Lo stadio, insomma, come una foglia di fico per far ripartire la speculazione in una città ormai paralizzata, dove sono fermi persino i lavori pubblici di ordinaria manutenzione.

L’area di Tor di Valle non sarebbe neppure dovuta rientrare fra le aree edificabili del piano regolatore essendo, di fatto, un’ansa del fiume Tevere in piena zona di esondazione. Ma tant’è, all’epoca dell’approvazione del Prg, rientrò fra le nuove centralità urbane, cardine del nuovo piano.

Chissà, forse più per soccorrere una società di telefonia - allora proprietaria del terreno poi acquistato da Parnasi - dal fallimento, che non per una sua valenza urbanistica, ubicata com’è tra il fiume e la stretta via del Mare.

Il nuovo Prg viene approvato nel febbraio del 2008 e, subito dopo arriva la crisi economica e l’edilizia è fra i settori più colpiti. Sarà per questo che si pensa proprio agli stadi per rilanciarla.

E così, il governo Berlusconi, allora in carica, presenta un disegno di legge che considera «urgente e indifferibile» per la costruzione di nuovi stadi, la cui realizzazione deve, però, essere economicamente sostenibile. Come? Con la realizzazione accanto ad essi di costruzioni ad libitum, prescindendo da qualsiasi vincolo ambientale e paesaggistico, con procedure estremamente veloci, risolte con “conferenze di servizi” aventi il compito di accelerare tutte le varianti necessarie. Un procedimento lampo, giustificato con una dichiarazione di pubblica utilità e indifferibilità e urgenza delle opere.

Se durante il governo Berlusconi quel disegno di legge restò nel libro dei sogni degli speculatori, durante il governo Letta esso divenne realtà, celato nel comma 304 della legge di stabilità 2014.

Fu proprio partendo da quella norma che la giunta Marino dichiarò di pubblica utilità e urgenza il progetto dello stadio de La Maggica. Un atto che i grillini, allora all’opposizione, contestarono duramente.

Ma si sa, quando poi si va al governo le cose cambiano. Bisogna dimostrare di esser capaci di governare … come chi c’è stato prima!

Peccato che, di governo in governo, paesaggio (e ambiente) - nonostante l’art. 9 della Carta Costituzionale, forse una delle poche, se non l’unica, così attenta al tema – in questo paese siano andati a ramengo.

Il progetto iniziale prevedeva edifici residenziali, uffici, centri commerciali e quant’altro, per un totale di oltre 900mila metri cubi, oltre alla costruzione dello stadio, dei quali solo il 15% destinati alla realizzazione dell’impianto sportivo. Il tutto su un’area destinata inizialmente, dal Piano Regolatore Generale, prima a verde attrezzato, poi ad impianti sportivi, ma con un volume edificato non superiore ai 300mila metri cubi e ubicata, come detto, in un’ansa del Tevere e sottoposta a vari vincoli: paesaggistico, considerata anche la presenza del vecchio ippodromo, ambientale, idrogeologico.

Come ha ricordato in un suo recente articolo sul Manifesto il professor Enzo Scandurra “Per costruire in deroga al piano regolatore serviva una dichiarazione di pubblica utilità. In proposito, Ferdinando Imposimato rilevava che, mentre secondo la legge «lo stadio non può prevedere altri interventi salvo quelli strettamente funzionali alla fruibilità dell’impianto», le costruzioni previste «non sono in alcun modo finalizzate allo stadio, ma hanno il solo scopo di procurare guadagni a vantaggio del proponente e soci, secondo la strategia di insinuare l’edilizia residenziale speculativa, di volumetria esorbitante quella dell’impianto»”.

Per giustificare e legittimare la dichiarazione di pubblica utilità si ricorreva, come sempre, alla previsione di una serie di opere pubbliche, da realizzarsi a spese del privato, necessarie per agevolare l’accesso al nuovo impianto sportivo, e per mettere in sicurezza l’intera area dal punto di vista idrogeologico.

Un rituale, quello delle opere di compensazione, che a Roma, come altrove, si ripete ad ogni speculazione. Opere che, quasi sempre, restano solo sulla carta di convenzioni urbanistiche che nessuno si curerà di far rispettare.

“L’interpretazione del «pubblico interesse» - scrive sempre Scandurra - vede in sostanza il «pubblico» affidato agli «interessi» finanziari dei proprietari fondiari, dei costruttori, delle banche creditrici, pronti a mettere in campo tutte le relazioni e i poteri di cui dispongono per assicurarsi la legittimazione «pubblica» dei loro profitti. È un copione che tende a ripetersi in molti luoghi, indipendentemente da chi governa le città e le regioni. In pratica, si dichiara defunta la disciplina urbanistica che avrebbe dovuto consentire all’amministrazione di decidere se la città avesse o meno l’esigenza di un nuovo stadio, l’area sulla quale esso semmai avrebbe dovuto essere realizzato, il rispetto delle cubature previste dal piano regolatore e i criteri di pubblica utilità”.

Caduto Marino, la nuova giunta, inizialmente sembra condividere la posizione dell’assessore all’urbanistica Paolo Berdini, contrario al progetto approvato, ma poi lo costringe alle dimissioni e approva un nuovo progetto in cui vengono sì lievemente ridotte le cubature iniziali ma anche tagliate molte delle opere pubbliche in compensazione. La cubatura complessiva resta oltre il doppio di quella prevista dal Prg vigente.

Pallotta ringrazia, non deve reperire le risorse (oltre 700 milioni) necessarie per realizzare tre grattacieli di incerta collocazione sul mercato, né quelle per realizzare le opere pubbliche previste inizialmente (il 30% del costo totale del progetto).

Italia Nostra, anche alla luce delle nuove vicende giudiziarie, minaccia ricorsi e solleva due eccezioni di incostituzionalità. Una “contro la vergognosa legge Madia che, nata per depotenziare le soprintendenze, ha consentito che in conferenza dei servizi la Soprintendenza di Roma non si esprimesse direttamente (sulle tribune dell'ippodromo opera di La Fuente entrata negli annali dell’architettura ndr) ma in modo mediato attraverso un funzionario della presidenza del Consiglio”. Per gli ambientalisti, “l'episodio più indegno, senza un precedente in 70 anni di politica italiana, per rottamare la tutela”.

La seconda eccezione riguarderà il fatto che “la variante verrebbe presentata in Consiglio bella e impacchettata, prendere o lasciare, e ciò vuol dire che il Consiglio comunale ha perso il potere di governare l'urbanistica”.

Ma c'è di più, dichiara Mirella Belvisi, storica ambientalista romana ed ex consigliera comunale: “L'area di Tor di Valle, non ha la possibilità di essere oggetto di edificazione. Il Pai, il Piano di Assetto Idrogeologico dell'Autorità di bacino ha sentenziato la sua pericolosità idraulica, in quanto ansa del Tevere a rischio inondazioni. Poi nel 2015 si è dato il via libera ad un futuro uso a seguito di una messa in sicurezza. Ma finché la zona non verrà tolta dall'elenco delle inedificabili, cioè dopo i lavori, non si potrà approvare nessuna variante urbanistica".

Ora, al di là della vicenda giudiziaria – che, al momento, non sembra coinvolgere la giunta Raggi - resta l’amarezza della vicenda politica e umana di un Movimento nato come difensore dei beni comuni, come quello dell’uno vale uno, e finito assediato e infiltrato da arrivisti e faccendieri, buoni per tutte le stagioni politiche, pronti a salire sul carro del vincitore e ad arricchirsi col solito metodo della corruzione, male endemico dell’Italia.

Nulla sembra cambiato dall’epoca che va dal “sacco di Roma” a “Mafia capitale”.

Ma i mali del paese, si sa, come ci ripete ogni giorno il mantra del “governo del cambiamento”, dipendono tutti … dai poveri migranti!

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