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Sabato, 13 Dic 2025

Nel contratto di governo tra Movimento 5 stelle e Lega è presente l’impegno a dare “fin da subito la possibilità di uscire dal lavoro quando la somma dell’età e degli anni di contributi del lavoratore è almeno pari a 100, con l’obiettivo di consentire il raggiungimento dell’età pensionabile con 41 anni di anzianità contributiva, tenuto altresì conto dei lavoratori impegnati in mansioni usuranti”.

La ‘quota 100’, che serve a superare i vincoli stringenti imposti dalla legge Fornero, presenta, tuttavia, alcuni inconvenienti: ha un costo per le casse pubbliche (già impegnate a trovare 12,5 miliardi di coperture per sterilizzare l’aumento dell’Iva lasciato in eredità dai precedenti governi); altera la sostenibilità di lungo periodo della spesa pensionistica; favorisce la categoria di lavoratori ‘anziani’ a scapito delle generazioni future, sottraendo risorse che potrebbero essere destinate alle fasce più deboli della popolazione; è una misura senza una visione prospettica, che tutela coloro che vanno in pensione con una quota più o meno consistente di trattamento retributivo.

Prima o poi – ma sarebbe meglio prima – maturerà la consapevolezza che, sotto il profilo attuariale, la pensione calcolata con il metodo contributivo, non necessita di alcun vincolo anagrafico o di anzianità lavorativa. Tanto si versa e tanto si riceve, opportunamente rivalutato.

Se si va in pensione prima, si riscuote un assegno più basso perché deve essere pagato per un maggior numero di anni, se si va più tardi, è maggiore ma lo si godrà per un tempo minore. Tutt’al più, può essere inserito un vincolo sulla rendita maturata che deve essere almeno pari a un livello minimo vitale, per non gravare sull’assistenza sociale.

Non ha senso, pertanto, utilizzare per il regime contributivo gli stessi requisiti di uscita dal mondo del lavoro che sono fissati per il retributivo e questo ragionamento vale sia per chi già lavorava prima del 1995 (trattamento misto) sia per chi ha iniziato dopo il 1 gennaio 1996 (solo contributivo).

Per i primi, già oggi l’Inps calcola l’assegno pensionistico separatamente per la componente retributiva e per quella contributiva. L’unica modifica da fare è allora quella di concedere la libertà di andare in pensione quando si vuole, riscuotendo inizialmente la sola rendita maturata con il contributivo, salvo poi, al raggiungimento dei requisiti di vecchiaia o anzianità previsti dall’attuale sistema, incassare anche la parte calcolata sul periodo retributivo. La scelta è affidata alla volontà del lavoratore, senza alcun onere per lo Stato che, anzi, nel medio-lungo periodo, risparmierebbe qualcosa. Parimenti, viene rispettata la facoltà di rimanere a lavorare per chi intende avere un assegno più ricco in età più avanzata.

La promessa della ‘quota 100’ può essere così mantenuta, consentendo al lavoratore di riscuotere la parte contributiva maturata, senza però ricevere da subito e per un numero di anni eccessivo, come accaduto in passato, il trattamento di maggior favore previsto dalla quota retributiva.

Per i lavoratori più giovani, soggetti al solo trattamento contributivo, si cancellerebbe invece l’incubo di dover rimanere a lavorare fino a 70 anni o più, in ragione dei limiti imposti dalla speranza di vita.

La soluzione proposta - e già illustrata in un precedente articolo - ha il pregio di cambiare in maniera sostanziale le regole attuali senza gravare sulla spesa previdenziale futura, aprendo anche la possibilità a un turn over che riduca il tasso di disoccupazione, al superamento dei costi dell’Ape volontaria, ad alternative agli ammortizzatori sociali per superare le crisi aziendali.

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