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Giovedì, 28 Mar 2024

Se tutto è arte...” di Roberto Gramiccia, prefazione di Alberto Dambuoso, postfazione di Pietro Folena - Mimesis Edizioni - Milano 2019 - pp. 115, euro 12,00.

Recensione di Adriana Spera

Sull’arte contemporanea ormai la maggior parte delle persone, considerata la china che essa ha preso, ha uno sguardo disinteressato e, talmente disincantato che, sul tema, persino il cinema, anziché film agiografici su questo o quell’autore, è arrivato a produrre commedie - come My Italy o Senza arte né parte e, da ultimo, l’argentino Criminali come noi - che, con ironia, denunciano i paradossi di un’arte ai più incomprensibile.

Sul tema, Roberto Gramiccia – poliedrico scrittore, giornalista, medico, critico d’arte e organizzatore di mostre - ha già scritto due interessanti saggi: nel 2012, Slot art machine (ed. DeriveApprodi), su come il fenomeno della sfrenata mercificazione dell’arte contemporanea sia andato di pari passo con uno scadimento della qualità delle opere, e, nel 2014, Arte e potere. Il mondo salverà la bellezza? (Ed. Ediesse), su come l'artista - sin da quando, nella notte dei tempi, si è affermata la divisione del lavoro e sono nate le classi sociali - ha sempre dovuto e potuto negoziare la propria libertà con il potere politico-economico e, soprattutto, con quello religioso.

Ma se in passato l’artista, pur dipendendo dal potente committente, manteneva una sua indipendenza che si rifletteva sulla propria creatività nell’opera d’arte, oggi, con il trionfo dell'ultracapitalismo finanziario globalizzato, l'arte è diventata una sottomerce e l’artista rischia di perdere libertà e autonomia.

Ora, con Se tutto è arte… (Ed. Mimesis), Gramiccia torna ad esaminare il fenomeno e a proporre delle soluzioni per uscire dall’empasse e consentire ai più di riprendere contatto con opere d’arte vere e non con semplici merci piegate a meri meccanismi speculativi.

«O riteniamo che tutto sia arte e allora l’arte come tale non esiste perché è indistinguibile dal tutto, o riteniamo che non tutto lo sia e allora bisogna capire che cosa può essere considerato arte – scrive Gramiccia, che aggiunge – Oggi un complesso apparato tecno-finanziario ha arbitrariamente avocato a sé il diritto di decidere». Un meccanismo, una decadenza che per l’autore riflette la crisi della democrazia nel mondo globalizzato dove tutto è finanza, e l’arte, la vera arte che è «indispensabile alla democrazia» perciò diventa scomoda, diventa un qualcosa che deve far vendere piuttosto che far riflettere.

L’autore si chiede che cosa sia l’arte e rigettando la visione di chi, come il critico Thomas McEvilley, dice che “Qualsiasi cosa può essere arte”, afferma che «L’arte discende da una condizione di fragilità che è iniziale e iniziatica […]Mostra sin da subito un carattere che la rende unica in quanto attività che confina con il gioco e con il gioco condivide il lusso di non essere l’espressione di un lavoro volto alla soddisfazione di un bisogno materiale. Più ancora della religione, l’arte nasce libera e meravigliosamente “inutile”. Ma con la religione ha in comune la capacità di esprimere una risposta di senso compiuto all’angoscia della morte.».

L’arte ha molto a che fare con la fragilità (tanto dell’autore che del fruitore), con l’angoscia dell’uomo, con ogni attività che si ponga il problema di vincere rassegnazione e passività. L’arte è sempre influenzata dalla realtà, indipendentemente dai linguaggi, dagli stili, che assume. La novità dell’arte contemporanea è che si interessa alla realtà «così com’è soggettivamente». La realtà diventa semplicemente uno spunto.

Viceversa, oggi, con l’arte post-moderna si tende a non dare un motivo, un’origine all’arte, ed essa a non esprimere una lettura critica della realtà. Insomma, si tende a definire arte unicamente ciò che si vende, che fa mercato. È una resa alle leggi del mercato capitalista. «Il tratto fondamentale del post- contemporaneo – scrive il nostro autore, nella sua impietosa analisi – è che l’arte ha perso il suo rapporto con la realtà, divenendo espressione solo ed unicamente del mondo economico, non più “committente” ma “proprietario” dell’arte ed unico artefice del suo destino. […] L’arte, in particolare, ha cessato di negoziare con il potere gli ambiti della sua autonomia e si è consegnata mani e piedi ad esso, rinunciando alla propria natura, dismettendo il suo rapporto con la realtà e diventando altro da sé.».

Per Gramiccia, il padre eretico del post-contemporaneo è stato, con il suo Fontana, del 1917, Marcel Duchamp che, però, in un’intervista così spiegava il suo gesto artistico: «l’obiettivo era sottrarmi alla capacità di scambio, per così dire, dell’opera d’arte […] Era un gesto per dimostrare che era possibile fare qualcosa senza il retropensiero di ricavarne del denaro. E infatti, non li ho mai venduti».

Sicuramente, a partire da Duchamp v’è stato un processo di smaterializzazione e snaturamento dell’arte, come dimostra la performance art di cui Gramiccia nel capitolo La fiera dell’incredibile ci fornisce una vera e propria galleria degli orrori.

È così che l’arte, una certa “arte”, è unicamente al servizio del profitto. Dall’artista moderno unico arbitro delle sue opere, dall’artista protagonista si è passati all’artista succube del potere economico «le ragioni del mercato hanno prevalso su quelle della libertà dell’arte. – conclude Gramiccia, che aggiunge – Ed essa, in linea tendenziale, è stata messa a catena. O meglio si è ritrovata a svolgere una funzione puramente ancillare rispetto al mercato. Questo ha comportato la perdita della sua relazione con la realtà. Insomma, dobbiamo tristemente riconoscere che l’arte è diventata una merce come tutte le altre anzi…peggiore delle altre». E le opere d’arte non hanno neppure più un valore d’uso, chiuse, come spesso sono, nei caveau dei ricchi proprietari, in attesa di essere rivendute ad un prezzo più alto.

Insomma, anche l’arte, come tutto il resto, ormai è determinata dalle èlite tecno-finanziarie che governano il mondo. È un qualcosa di separato dalla società, dall’opinione pubblica non specializzata, in alcuni casi, persino dall’opera d’arte stessa, nel senso che è più una rappresentazione teatrale, spesso insulsa, che non vera ricerca artistica. Scrive l’autore: «In questo mondo si è venuta affermando una specie di calma piatta. Un po’ quello che è successo per la Sinistra culturale e politica che da decenni sembra diventata prigioniera di una specie di cupio dissolvi».

Che fare per difendere l’arte dal predominio dell’economia (capitalistica)? Mettere in discussione il sistema economico e di relazioni che la domina, ma non sarà una battaglia facile perché «Ciò che appare evidente è che il pensiero unico della finanza e delle banche in arte ha sfondato e sarà ben difficile venire a capo delle assurdità che ha prodotto».

Il giro d’affari miliardario che ruota intorno all’arte si regge sul presupposto che tutto può essere arte, basta costruirci attorno un sistema di relazioni, di promozioni, di pubblicità, con la complicità di qualche critico più o meno in buona fede e il gioco è fatto. L’opera d’arte oggi è il prodotto rappresentativo di un nuovo capitalismo, quello cognitivo - reso possibile dalla finanziarizzazione dell’economia e dalla rete - che commercializza idee, beni immateriali ma, di fatto, rende difficile la nascita di nuovi artisti in qualsiasi campo.

Allora, per cambiare le cose serve, innanzitutto uno, statuto delle arti visive.

Infoner, occorre combattere il sistema, ma come? «Si tratta di ricondurre il potere del mercato entro ambiti compatibili con la sopravvivenza di una libertà di ricerca artistica che oggi appare nei fatti mortalmente minacciata…poi servirà una politica rigenerata…capace di rigenerare un senso di giustizia che …è quello della nostra Costituzione».


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