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Giovedì, 28 Mar 2024

A me piace leggere romanzi. Mi è sempre piaciuto. Non per sete di cultura o per avere brillanti argomenti di conversazione ma per immergermi acriticamente in mondi il più possibile lontani dalle mie esperienze quotidiane. Insomma sono un lettore decisamente passivo. Non lo considero una limitazione, anzi, penso che sia il modo migliore di seguire una storia. Sono convinto che solo con questo atteggiamento si riescano veramente ad apprezzare le Saghe islandesi o i Racconti di Canterbury.

 

Evito di leggere recensioni spesso noiose. Ho un atteggiamento di sostanziale disinteresse nei confronti della vita privata dell'autore di cui preferisco non saper niente. Raramente acquisto libri di quelli che vanno in televisione a pubblicizzarli, ottenendo quasi sempre il risultato di banalizzarli.

Seguo poco i recensori, che smontano quasi chirurgicamente i testi per farne fredde e inutili disamine, spesso dando l'impressione che avrebbero potuto far meglio dell'autore se avessero avuto tempo e voglia.

Quando ci penso mi viene in mente una battuta, non ricordo di chi (Hemingway?), che diceva che nessuno da piccolo sogna di fare il critico letterario.

Molti infatti sognano di diventare grandi scrittori. Io sognavo di diventare un grande lettore, con una grande biblioteca. Indubbiamente ho realizzato una grande biblioteca e mi considero un lettore attento.

Purtroppo, malgrado mi impegni, non sono ancora riuscito a stabilire le caratteristiche che definiscano i libri che mi piacciono, quelli che leggo tutti di un fiato. Quelli che definisco treni direttissimi (definizione anteriore alle Freccerosse), che una volta salitoci vuoi arrivare presto ma non puoi scendere e non vorresti mai farlo. Per esempio: "Il rosso e il nero", "I Buddenbrook", "L'educazione sentimentale"...

Per scegliere i libri da leggere, quando ero più giovane, leggevo le prime trenta pagine: se non mi "prendevano" abbandonavo il libro. Invecchiando ho scoperto che così facendo avevo scartato libri che poi ho divorato. Per esempio, avevo abbandonato "Bella del Signore" di Albert Cohen (Rizzoli) e "Storie in modo quasi classico" di Harold Brodkey (Mondadori) mentre avevo perso tempo su cose che, a posteriori, si rivelarono inconsistenti.

Ho cominciato allora a leggere una trentina di pagine nella parte centrale del libro e mi sembra che il metodo sia più efficace. È così che ho scoperto uno dei libri che ho maggiormente apprezzato negli ultimi anni e che ho letto più volte: "Trilogia della città di K." di Kristof Agota (Einaudi). Un libro che "marchia a fuoco la mente di chi lo legge".

Ho anche letto qualche saggio che cerca di spiegare il perché della letteratura o meglio il perché l'uomo ha bisogno di raccontare o di farsi raccontare storie. Ho avuto anche il privilegio di parlarne con Ezio Raimondi quando tanti anni fa, studente universitario, ero ospite del Collegio Irnerio, che Raimondi, da giovane, diresse per alcuni anni. Ma non ho mai trovato una spiegazione semplice o, almeno per me, abbastanza convincente.

Forse è meglio spiegare tutto con l'utilizzo che della letteratura si fa. Insomma una definizione "operazionistica" come avviene in Fisica quando si definiscono le grandezze fondamentali. Personalmente ritengo che la migliore definizione di letteratura venga da un episodio di alcuni anni fa, che seguii sui giornali.

Un famoso attore britannico, uno di quelli apprezzatissimi dalle signore, Hugh Grant, fu sorpreso in California con una prostituta. La polizia, molto puritana, lo arrestò. La foto dell'attore, in vari profili, con un cartello in mano con sopra un numero, fece il giro del mondo, apparve su tutti i giornali. Un giornalista americano lo intervistò e fra l'altro gli chiese se per superare un momento così difficile sarebbe andato in analisi da uno psichiatra.

Geniale e per me illuminante la risposta.

Disse che non aveva bisogno di cure psicoanalitiche e che avrebbe tentato di rasserenarsi tornando a casa e dedicando molto del suo tempo alla lettura di molti romanzi. La trovo, come ho detto, una definizione operativa di letteratura semplicemente geniale.

Ma restai deliziato quando Javier Cercas, un grande scrittore spagnolo contemporaneo, che ammiro specialmente per un suo splendido libro, "I soldati di Salamina" (Guanda), scrisse un'intera pagina per Il Corriere della Sera sul significato della letteratura, proprio partendo dalla risposta di Grant. Il titolo dell'articolo era "Hugh Grant e il futuro del romanzo".

Credo che si possa ancora trovare nell'archivio digitale del Corriere (a me non è riuscito, ma per queste cose sono negato).

Ho tentato qualche volta di coinvolgere i miei colleghi in questa  passione ma quasi sempre senza successo. Una volta, dovendo inaugurare un congresso di geofisica, lessi la "Terra Desolata" di T.S. Eliot, credendo di fare una cosa molto elegante. Mi guardarono come se fossi stato un alieno e ancora mi vergogno dell'episodio quando ci ripenso.

Adesso mi limito a fare "battute letterarie", raramente apprezzate.

Un mio collega di Harvard, che spesso mi veniva a trovare a Bologna si era innamorato dei cappuccini e dell'acqua minerale San Pellegrino, forse i veri motivi per venire a trovarmi. Poi, anni fa, in una delle mie visite a Cambridge mi annunciò con orgoglio che anche negli USA era possibile bere ottimi cappuccini. Mi portò in uno Starbucks (la catena che imita con successo i nostri bar) vicino ad Harvard Square. Appena entrai dissi in maniera enfatica: "che bello essere a bordo della Pequod".

Ovviamente mi guardarono strano e io non cercai neanche di giustificarmi.

Anch'io come Hugh Grant in questi ultimi due anni leggo romanzi per dimenticare le mie miserie, molto peggiori delle sue.

Per dimenticare il suo problema a me sarebbe bastato un racconto breve di Balzac. Adesso sto leggendo "Tutti gli uomini del re", di quasi seicento pagine, che Robert Penn Warren pubblicò nel 1946 e che la Feltrinelli ha tradotto e pubblicato da poco.

Prima avevo letto "Vita e destino" di Vasilij Grossman, ancora più lungo ...

*Geomante

Post Scriptum

La redazione del Foglietto mi ha chiesto di scrivere qualcosa di diverso dalle mie solite elucubrazioni. Questo è il risultato. Se ho scritto delle banalità non è colpa mia perché ho fatto del mio meglio.

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