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Giovedì, 04 Lug 2024

di Maurizio Sgroi*

Distratti come siamo dagli affarucci di casa nostra, prestiamo poca attenzione a quello che succede fuori dai nostri confini.

Presi come siamo dalle beghe dei Palazzi non badiamo a uno dei traslochi più rilevanti per la geopolitica prossima ventura: quello della Cee da Bruxelles a Mosca.

Già. Il vecchio acronimo della Comunità economica europea ha finito col diventare quello della Comunità economia euroasiatica. E non da oggi: da oltre dieci anni.

E siccome a est sono più veloci di noi a fare le cose, vuoi perché hanno una gestione più disinvolta delle procedure democratiche, vuoi perché hanno imparato molto dai nostri errori, finirà che da qui a un paio d’anni ci ruberanno anche un’altro acronimo: quello dell’Ue.

Ai primi del 2015, infatti, secondo le intenzioni russe, dovrebbe nascere l’Unione euroasiatica, che nel sogno egemonico russo dovrebbe rappresentare il vero motore di un’integrazione economica che vada da Vladivostok a Lisbona.

Un’altra Ue, nel caso non bastasse quella che già c’è.

Scherzi a parte, la questione è seria e merita un riepilogo.

Il 10 ottobre del 2000, Bielorussia, Kazakhstan, Kirghizstan, Russia e Tagikistan firmano il trattato che istituisce la Comunità economica euroasiatica. Oggi la Cee dell’est include anche l’Uzbekistan e vede come “membri osservatori” Armenia, Ucraina e Moldova. Il trattato prevedeva la promozione “dell’integrazione regionale” e la “creazione e il rafforzamento dell’Unione doganale e dello Spazio economico unico tra i suoi membri”.

C’è voluto un decennio, ma finalmente nel 2010 l’Unione doganale è diventata una realtà.

Nel luglio 2011, i paesi core della Cee, ossia Russia, Bielorussia e Kazakhastan, misero in piedi la struttura chiamata a favorire i commerci della regione, stabilendo una tariffa doganale unificata e un unico territorio doganale. E’ stata creata un’entità sovranazionale (la Commissione dell’Unione doganale) alla quale i governi-partecipanti hanno ceduto parte dei propri poteri in materia di tariffe doganali, di ordinamento non tariffario e tecnico, di politica commerciale con i paesi terzi e di amministrazione doganale.

A gennaio 2012, poi, gli stessi tre paesi hanno dato vita allo Spazio Economico unico. Queste entità sono i pilastri che dovrebbero condurre, da qui al 2015, alla fondazione dell’Unione euroasiatica che, come ebbe a scrivere Putin in un articolo del 2011, non è un clone della vecchia Unione sovietica, ma “un’unione sovranazionale” (come quella di Bruxelles) che vuole diventare il ponte di collegamento fra Ue (quella di Bruxelles) e Asia.

La futura Unione euroasiatica replica per grandi linee l’Unione europea.

Ha una sua commissione euroasiatica, ossia l’organo regolativo dell’unione doganale e dello spazio economico e un consiglio interstatale euroasiatico, che riunisce i capi di stato e di governo e adotta le delibere per consenso. Ovviamente il peso specifico della Russia garantisce ad essa un’influenza determinante sulle scelte del consiglio. Quindi è stata creata anche una Corte di giustizia comunitaria, chiamata a risolvere le dispute fra gli stati membri. Come quella nostrana del Lussemburgo.

Insomma l’Unione euroasiatica è la gemella diversa dell’Unione europea.

Per dare un’idea di come stia procedendo il processo di integrazione, è utile andarsi a leggere gli atti di un convegno, che si è svolto un anno fa alla Camera dei Deputati, dal titolo “L’Unione Eurasiatica – Sfida od opportunità per l’Europa?” organizzata dall’IsAG, Istituto di alti studi in geopolitica e scienza ausiliarie, al quale hanno partecipato alcuni diplomatici dei paesi dell’Unione.

Il primo dato che salta all’occhio è quello fornito da Evgenij A. Šestakov, ambasciatore della Repubblica di Bielorussia, che parla apertamente di successo. “Il volume degli scambi commerciali tra la Bielorussia e la Russia nel 2011 si è attestato sui 38,6 miliardi di dollari USA, con un aumento del 37,7% rispetto al 2010. Il volume degli scambi con il Kazakistan nel 2011 è cresciuto di 768,2 milioni di dollari USA. Le nostre esportazioni sono state di 631,2 milioni di dollari e sono cresciute, rispetto al 2010, del 35,8%”.

D’altronde è notorio che favorire gli scambi fa aumentare il commercio. Tanto che adesso sono partiti i colloqui con tutti i paesi dell’Asean e persino con Egitto, Vietnam e Mongolia.

Ancora più esplicito Aleksandr Zezjulin, che ha parlato in rappresentanza dell’Ambasciata della Federazione Russa. “È evidente – dice – che la creazione di tale mercato comune che conta 170 milioni di consumatori non può che rappresentare una opportunità da non perdere per i nostri partner vicini, tra cui in primo luogo i Paesi europei”. E sottolinea di aspettarsi “dall’Unione Europea un atteggiamento altrettanto aperto e costruttivo”.

Ma non solo dall’Ue. Andrian K. Yelemessov, ambasciatore della Repubblica di Kazakistan, ha spiegato che “una delle condizioni fondamentali per lo sviluppo della capacità di innovazione dell’Unione Eurasiatica è quella di aumentare attivamente gli investimenti e la cooperazione tecnologica con gli Stati Uniti, l’Unione Europea, la Cina e con la Cooperazione Economica Asia-Pacifica”.

Se tutto questo vi sembra astratto, vi suggerisco di dare un’occhiata a un planisfero. La nascente Unione euroasiatica è più che vicina geograficamente all’Unione europea. Il primo punto di contatto è in Finlandia, storicamente molto legata alla Russia, che aderisce insieme all’Unione europea e all’euro. Poi ci sono le tre repubbliche baltiche, orami saldamente nell’orbita di Bruxelles (la Lettonia aderirà all’euro l’anno prossimo, l’Estonia già dal 2011).

Immediatamente sotto le tre repubbliche, nella cerniere di collegamento fra le due Ue, troviamo l’Ucraina, che, al momento sembra indecisa fra l’Ue di Bruxelles e quella di Mosca. Gli ultimi sviluppi fanno ipotizzare che Kiev finirà col preferire quest’ultima, blandita costantemente da Mosca con promesse di aiuti e qualche pressione politica.

La più recente è arrivata un mese fa da dall’ambasciatore russo presso l’Unione europea Vladimir Chizhov in un’intervista a EurActiv.com. Il diplomatico ha spiegato che “nel caso di un accordo di libero scambio con l’Ue (di Bruxelles, ndr), l’economia dell’Ucraina soffrirebbe, poichè i suoi prodotti non rispettano gli standard europei”. Oltre al fatto che “qualora Kiev dovesse firmare un accordo di associazione con l’Unione europea nel corso del vertice di Vilnius del 28 e 29 novembre prossimi – è opinione di Chizhov – il prossimo parlamento ucraino potrebbe non ratificarlo”.

Ma in gioco c’è molto di più, ovviamente. Basti ricordare che attraverso l’Ucraina passa il gas russo per i paesi europei.

Senza avventurarci troppo nella geopolitica, dovrebbe essere chiaro a tutti che l’integrazione regionale dell’ex Unione sovietica, nella forma di un’unione sovranazionale di stampo europeo, è uno dei momenti salienti del graduale processo di avvicinamento dell’intero blocco.

Lo spazio economico comune “da Lisbona a Vladivostok” auspicato da Putin si comporrebbe di due regioni (ossia le due UE), trovando il proprio fondamento nei profondi rapporti commerciali che già esistono fra loro.

L’Unione euroasiatica potrebbe trovare nell’Unione europea, e segnatamente nell’eurozona, uno strumento monetario, ossia l’euro, che, in un contesto di intensificazione dei rapporti bilaterali, consentirebbe ai paesi orientali di avere una valuta di riserva davvero alternativa al dollaro, capace vale a dire di difendere il valore dei loro investimenti.

Anche per una semplice circostanza. Le due Unioni europea/asiatica hanno in comune qualcosa che le avvicina, se non per affinità culturale per mero interesse, alla Cina, alla quale infatti si rivolgono le affettuose attenzioni degli ambasciatori dell’Unione euroasiatica: i crediti che hanno con l’estero.

In un quadro di integrazione crescente, insomma, il dispotismo euro-asiatico troverebbe il terreno ideale su cui svilupparsi, con l’Ue “occidentale” che finisce col diventare una maschera dell’Ue “orientale”. Ossia la controparte presentabile dei vari processi internazionali.

Le prove generali sono già in corso.

Solo che nessuno le guarda.

Socio-economic journalist*
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