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Giovedì, 04 Lug 2024

Come scrivevamo la scorsa settimana, l’Italia è l'unico paese dove si creano organismi di valutazione i cui componenti dovrebbero esprimersi sull'operato e sui provvedimenti varati da chi li ha nominati.

Con queste premesse quali possono essere i margini di autonomia e di indipendenza dei medesimi organismi? La loro valutazione sugli effetti prodotti dai provvedimenti esaminati sarà obiettiva? Ma, soprattutto, è necessario e utile questo moltiplicarsi di organismi? Quanto costa alla collettività?

Dopo la lettura del Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca 2013, redatto dell'Anvur, le nostre perplessità sono aumentate ancor di più, perché i dati in esso contenuti appaiono illustrati in maniera acritica, o si appalesano raccolti forse per dimostrare assunti preordinati, volti a dimostrare la bontà della riforma, in questo caso la legge 240/2010 (riforma Gelmini) e, in parte, la n. 230/2005 (riforma Moratti).

Comunque, i dati in esso sciorinati, per lo più per quanto concerne l'Università, avrebbero potuto esser tranquillamente forniti dall'ufficio statistico del Miur.

L'Italia, ci ricorda l'Anvur, con il 22,3% (56,4% donne) di laureati nella fascia d'età 25-34 anni (a fronte di un 78% di diplomati), si colloca al penultimo posto tra i paesi Ue, mentre la media europea supera il 35%.

Un dato appena smentito da Euro­stat, secondo il quale, nel 2013, l’Italia si clas­si­fica  ultima fra i 28 paesi dell'Ue, con il 22,4% die­tro Roma­nia (22,8%), Croa­zia (25,9%) e Malta (26%); in testa troviamo Irlanda (52,6%), Lus­sem­burgo (52,5%) e Litua­nia (51,3%), men­tre la media Ue si atte­sta al 37% (era il 24% nel 2002).

Ma, al di là delle classifiche o delle percentuali, il fenomeno non appare analizzato a fondo.

Perché ci sono così pochi laureati? Dipende dalla didattica delle nostre università o piuttosto da quella della scuola secondaria? Il 3+2, che doveva farci allineare alle percentuali di laureati nel resto d'Europa non sarà per caso, ma solo per caso, fallito? Non ci sarà un problema di investimenti? L'articolo 34 della Costituzione viene rispettato?

A giudicare dai dati, si direbbe di no, perché se nel 2013 i laureati sono pochi, negli anni a venire lo saranno ancora di meno, visto che a causa della crisi economica (e non solo di essa) le matricole decrescono sempre di più.

In paesi in cui in concomitanza con la congiuntura economica si è investito in istruzione, come in Irlanda, i laureati sono aumentati. Invece, in Italia dal 2008 si è registrata una riduzione delle risorse del 18%, i tagli hanno riguardato soprattutto il Fondo di finanziamento ordinario, che da solo rappresenta oltre il 90% delle risorse complessive.

Per chi ci governa aumentare il numero dei laureati non appare una priorità, infatti - nonostante sia stato sottoscritto il Trattato di Lisbona, con il quale l'Ue si è impegnata entro il 2020 ad avere in media il 40% dei laureati nella popolazione di età compresa tra i 30 e i 34 anni – ci si è dato l'obiettivo nazionale del 26%.

Il sistema universitario italiano è basato prevalentemente su università statali (67 atenei), che raccolgono il 92% degli iscritti e oltre il 70% degli studenti frequenta i 29 grandi atenei (quelli cioè che superano i 40.000 studenti).

Fra i compiti precipui dell'Anvur vi è l’accreditamento periodico delle sedi e dei corsi di studio e l'accertamento della qualità degli atenei. Sono stati accreditati 4.359 corsi di studio, suddivisi in 89 atenei. Ma scrive Anvur: “dato il numero elevato di corsi”, potranno essere sottoposti  “a verifica per l’accreditamento periodico un numero non superiore al 20% del totale, analizzando i casi più critici, quelli indicati dal MIUR e quelli scelti a campione. Parte dei corsi saranno valutati nel corso delle visite per l’accreditamento periodico delle sedi universitarie”.

Ciò che lascia perplessi è il fatto che Anvur, nonostante i compiti di accertamento e verifica ad essa assegnati, fornisca dati senza alcun commento. Eppure sono dati molto importanti e ricchi di significato.

Ad esempio, mentre i governi definanziavano la pubblica istruzione per finanziare sempre più l'università privata, gli studenti hanno continuato a scegliere alcune grandi università pubbliche.

Così come non c'è alcun commento sull'andamento tipicamente italiano, che è quello di passare da un'esagerazione all'altra, del numero dei corsi di studio (velocemente cresciuto fino a 5.879 corsi nell'anno accademico 2007/2008, subito dopo il varo della riforma degli ordinamenti didattici del 3+2, per poi ridursi nel successivo anno accademico di circa 1.200, soprattutto di primo livello e prevalentemente negli atenei del centro Italia) e dei corsi di dottorato, passati nello stesso periodo da 2.200 a 1.500 e nel 2013/14 scesi a soli 919 (diminuzione che ha toccato in particolare i piccoli atenei del Mezzogiorno).

Analogo è stato l'andamento del numero di corsi che si tengono nei 37 comuni sedi decentrate, che è passato da 162 nel 2006/07 a 117 nel 2013/2014, prevalentemente corsi per le professioni sanitarie, che sono aumentati.

La riduzione più consistente di corsi si registra nell’area letteraria e in quella giuridica, anche se su tale flessione potrebbe avere influito il passaggio al ciclo unico. Riduzioni superiori al 25% si riscontrano anche nelle aree delle Scienze chimiche e delle Scienze agrarie e veterinarie. Molto più contenuti sono invece i cali nelle aree Medica, delle Scienze politiche e sociali, storica, filosofica, pedagogica e psicologica. Una riduzione che, se pure dovesse aver riguardato qualche corso inutile, creato ad hoc per qualche barone, come affermava la Gelmini, sicuramente ha danneggiato gli studenti, visto che i posti messi a bando sono scesi da 15.800 a 12.338, colpendo marcatamente il Sud.

Altri eccessi si registrano, sempre senza alcun commento, a proposito dello scandaloso meccanismo dei crediti concessi agli immatricolati “maturi”, subito dopo la riforma, correlati all'attività lavorativa svolta, specialmente ai dipendenti pubblici. Un sistema estremamente variabile da un ateneo all'altro (alcuni riconoscevano fino a 180 crediti, pari ad oltre la metà dei crediti necessari per conseguire la laurea). Nel 2006 il Ministro, con un atto di indirizzo, ha limitato il numero massimo di crediti riconoscibili in ingresso e, con decreti nel 2006 e nel 2007, il numero massimo di crediti riconoscibili è stato fissato a 60 per le lauree triennali e a 40 per quelle magistrali. Limite  ulteriormente ridotto a 12 dalla legge 240/2010.

Ci si lamenta che l'istruzione terziaria sia concentrata su corsi a “prevalente contenuto teorico” anziché su corsi a carattere professionale.

Ma qual è l'informazione offerta ai giovani che devono decidere come proseguire la propria formazione post diploma di scuola media superiore? E quanto le cosiddette facoltà “teoriche” hanno invaso il campo delle professionalizzanti?

Sarebbe ora di fare un bilancio onesto della riforma del 3+2 e ammettere che è fallita, o almeno lo è per alcune facoltà, laddove il numero degli esami che prima era spalmato su 4 anni ora è di fatto concentrato in 3 e che il biennio successivo è una roulette russa, visti i meccanismi di accesso e la distribuzione dei corsi nel territorio.

Tant'è vero che “Per quanto riguarda i corsi triennali di primo livello, dove si concentra la grande maggioranza dei laureati, il tempo medio di conseguimento del titolo è pari a 5,1 anni, circa il 70% in più rispetto alla durata legale del corso”, per i corsi quadriennali 7,8 anni, nei corsi di primo livello di sei anni di durata è di 7,4 anni. Il tempo medio di conseguimento del titolo nei corsi di secondo livello biennali è di 2,8 anni. I laureati regolari sono il 33% tra quelli di primo livello e il 49,9% tra quelli di secondo.

Se non è un fallimento questo!

Ma c'è di più. Scrive sempre Anvur che “Per quanto riguarda i tassi di prosecuzione, abbandono e cambiamento del corso dopo il primo anno, il 70,5% degli immatricolati decide di proseguire gli studi nello stesso corso di immatricolazione, il 14,6% decide di cambiare corso e il 14,8% abbandona il sistema universitario al termine del primo anno. Le aree dove i dati sull’abbandono mostrano le maggiori criticità sono Agraria (25%) e Sociologia (22,7%)”.

Ad ulteriore riprova del fallimento del 3+2, vi è il fatto che gli abbandoni sono molto limitati nelle facoltà poco cambiate con la riforma, come Architettura, Medicina e chirurgia e Ingegneria, dove il numero degli abbandoni è più ridotto e dove sono di più gli studenti che finiscono nei tempi previsti dall'ordinamento.

Per Anvur invece “In ogni caso, superati tali effetti temporanei (dei crediti concessi ai lavoratori e a chi proveniva dal vecchio ordinamento ndr.), i livelli degli indicatori sembrano essersi stabilizzati su livelli nettamente superiori a quelli osservati prima dell’introduzione del 3+2, mostrando effetti nel complesso positivi della riforma nell’accrescere il tasso di regolarità negli studi.”

Il merito del successo non è tanto il numero chiuso o l'accesso programmato. Basta vedere le graduatorie dei “quizzelli” per accorgersi che non necessariamente i test vengono superati da coloro i quali conseguono un voto di maturità alto.

A proposito dei test, l'Anvur nulla ci dice. D'altronde questo sistema tanto bislacco quanto iniquo di selezione, nessuno vuole metterlo in discussione e così si continuano a selezionare le matricole con test (meglio, quiz), che poco o nulla hanno in comune con il corso di studi che si vuole intraprendere.  Un esempio su tutti, il test di accesso a medicina o a ingegneria prevede oltre il 50% di domande che nulla hanno a che fare con la preparazione scientifica dello studente.

Invece, sul differente successo territoriale degli studenti l'Anvur sforna una sua teoria: a sud l'insuccesso è maggiore perché si va più lentamente, e dire che i dati sono allarmanti “Gli abbandoni del sistema universitario sono il 12,6% al Nord, 15,1% al Centro e 17,5% nel Mezzogiorno”. Differenze che si rilevano anche fra i laureati “nei corsi di primo livello, nel Nord la quota di laureati regolari è pari a 43,5%, al Centro è pari al 27,2%, nel Mezzogiorno è il 22,9%”.

Su 1.762.719 di iscritti, ”Gli studenti fuori corso, sono in media pari al 40,4%, (41,9% nei corsi di primo livello, 32,4% nei corsi di secondo livello), gli “inattivi”, cioè quelli che nel primo anno non fanno neppure un esame, il 17%. Le mancate iscrizioni al II anno, per i corsi di laurea triennali, sono pari al 18,2%; al 3,4% per i corsi di laurea specialistica a ciclo unico ed al 15,2% per le lauree magistrali a ciclo unico. Per i corsi di secondo livello, gli abbandoni si attestano ad un 9%, che non è poco ove si consideri che riguardano studenti che hanno già dimostrato la capacità di concludere con successo una carriera accademica. Le percentuali maggiori di abbandoni nei corsi di Scienze della formazione e Sociologia. Per Anvur semplicemente “Occorre perciò rafforzare sia l'orientamento che l’impegno didattico e di tutoraggio”.

La nostra Università risulta sempre meno attrattiva. “Nell’a.a. 2011/12 per ogni 100 studenti italiani che si recavano all’estero nell’ambito della formazione universitaria, arrivavano in Italia circa 71 studenti stranieri (30.405 in uscita contro 21.689 in ingresso), contro i 93 circa del 2005/06. Per quanto riguarda i dottorandi sono circa 23 i dottorandi in entrata ogni 100 in uscita. La mobilità internazionale in uscita risulta in crescita anche in rapporto agli iscritti, salendo da 1,28% nell’anno accademico 2003/2004 a 1,82% nell’anno accademico 2011/2012, per gli studenti iscritti a facoltà a ciclo unico 1% e per gli studenti in corso è raddoppiata da 1,6% al 3% e sale al 5% per gli iscritti al biennio di II livello. La grande maggioranza proviene o si dirige verso paesi europei (82,7% in entrata e 84,4% in uscita nell’a.a. 2011/12). Tra i paesi extra-europei hanno un ruolo preminente gli Stati Uniti, tra quelli europei la Spagna.”

L'avviamento al mondo del lavoro appare più orientato su un piano teorico. Ottantasei atenei su novanta organizzano stage pre laurea e ottantuno post laurea.

Svolge attività di orientamento al lavoro, il 96,7% degli atenei del Nord e il 96,2% del Centro. Mentre l’attività di formazione/preparazione al lavoro è prevista nell’86,7% degli atenei del Nord e nel 66% del Centro e del Mezzogiorno, ma solo il 53,1% degli atenei svolge attività di “accompagnamento in azienda”.

Ma per Anvur “Le difficoltà che i giovani incontrano nel mercato del lavoro italiano, a prescindere dagli effetti della crisi, sono mediamente maggiori che negli altri paesi. In particolare il tempo di inserimento dei laureati appare eccessivamente lungo”. (1 – continua)

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