Alla vigilia dello spoglio dei risultati delle elezioni per il rinnovo del parlamento europeo, nelle quali, tra un insulto e l’altro, di tutto si è parlato tranne d’Europa, grande e diffuso era il timore per le conseguenze sull’edificio europeo dell’irrompere sulla scena dei partiti cosiddetti populisti ed euroscettici, mai così “aggressivi”come in quest’ultima competizione elettorale.
Stando a quel che si dice, pare che l’assalto dei malintenzionati sia stato respinto grazie ai consensi ottenuti dai partiti che l’Unione europea, invece, vogliono conservarla, alcuni così com’è, altri magari cambiandole sembianze, così da renderla più comprensiva e meno matrigna. In questa azione di eroica difesa si è senz’altro distinto il nostro PD, essendo diventato, risultati alla mano, “azionista di riferimento” del PSE, il socialismo europeo.
Di certo, anche tra i più restii al cambiamento si va sempre più rafforzando la convinzione che a Bruxelles si debba “cambiare registro”, perché le politiche di austerità si sono palesemente dimostrate una cura incapace di debellare i mali economici soprattutto dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo, tra cui anche il nostro.
Come se non bastasse, all’inutile cura da cavallo si è accompagnata, aggravandola, la pesante perdita di sovranità disinvoltamente inflitta dall’Europa ad alcuni di questi stati e resa palese, in Italia, dalla lettera inviata nell’agosto del 2011 dalla Banca centrale europea al nostro governo. Affermando che dal giorno del ricevimento della lettera con le prescrizioni della Bce, il governo italiano “in materia di consolidamento dei conti e di politica fiscale viaggia con il pilota automatico”, il presidente Mario Draghi non avrebbe potuto esprimersi con maggiore chiarezza.
All’introduzione in Costituzione del vincolo del pareggio di bilancio, invece, ci ha pensato, dopo essere stato adeguatamente stimolato dal governo, il nostro Parlamento, mai così efficiente nel varare provvedimenti di tale portata. Certo fa impressione vedere come, quando si vuole, si riescano a far passare in men che non si dica addirittura riforme di carattere costituzionale, del genere- per intenderci- sul quale non si fanno passi avanti da quarant’anni.
Avviare ora la “svolta” in Europa impone di pensare subito a come attrezzarsi per il superamento dell’esistente, attraverso la costruzione di un vero stato federale in luogo di una mera alleanza economica tra stati, sempre esposta al potere dei mercati.
Si tratta, in concreto, di completare il percorso, sinora rimasto a metà, a suo tempo iniziato con la moneta unica, cui devono seguire comuni garanzie sui depositi bancari e, prima possibile, la creazione degli eurobond, autentica pietra tombale dello spread, inteso come spietato e ineludibile confronto tra i nostri titoli di stato e quelli tedeschi.
Se si vuole rilanciare la popolarità dell’Unione, occorre rimboccarsi subito le maniche, lanciando chiari segnali per farci sentire tutti più cittadini e meno sudditi. No perditempo. Potrebbe essere l’ultima chiamata.
Quanto a noi, dobbiamo trovare altri nove miliardi. E' l'Europa che ce lo chiede.