Se c’è una cosa di cui in Italia non abbiamo mai sentito la mancanza, quella è rappresentata dalla valentia dei nostri studiosi. Ne abbiamo così tanti di cervelli, che da alcuni anni abbiamo cominciato ad esportarne in quantità quasi industriale. L’esatto opposto di quel che avviene per le risorse dedicate alla ricerca, storicamente sempre state scarse, con una certa tendenza addirittura a diminuire anziché a crescere, nonostante i continui e ripetuti proclami dei politici.
Appariva, dunque, comprensibile la soddisfazione con la quale, a febbraio scorso, l’allora titolare del Miur, Maria Chiara Carrozza, rivendicava tra i risultati della sua azione il fatto che, dopo quattro anni di continua flessione, il Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) delle università avrebbe registrato nel 2014 un segno positivo, con 190 milioni in più rispetto all’anno precedente. Nel contempo, sarebbe aumentata anche la quota premiale destinata alle università virtuose, pari al 16% del Fondo, in concreto più di un miliardo.
Sennonché, più di metà anno è passato ma, come rileva Stefano Paleari, Rettore dell'Ateneo di Bergamo e presidente della Crui, ancora non si sa come saranno divisi i soldi del Fondo tra le diverse università, col rischio che, persistendo tale stato di incertezza, le università non possano programmare, col conseguente rischio di una paralisi delle attività.
A complicare ulteriormente le cose, interviene anche il cambio dei criteri da utilizzare per la ripartizione dei fondi stessi, dato che da quest’anno, come stabilito dalla riforma Gelmini, la base non è più il bilancio dei singoli atenei dell’anno precedente, ma i costi standard.
L’auspicio del presidente Paleari è che si proceda, se si vogliono evitare scompensi gravi, a una graduale introduzione del nuovo criterio “altrimenti ci saranno università che non riusciranno a coprire le spese, soprattutto non avendo potuto programmare o calcolare i nuovi finanziamenti”.