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Venerdì, 05 Dic 2025

altI nostri più attenti lettori ricordano certamente che il 31 marzo scorso, in un articolo di commento alla sortita del ministro Poletti di far lavorare gli studenti delle superiori durante le vacanze (obbligo dall’altro ieri già declassato, dallo stesso ministro, a mera facoltà), demmo anche notizia della concomitante dichiarazione, rilasciata dal premier Renzi alla Luiss di Roma, secondo cui sull’istruzione l’Italia si giocava il ruolo di superpotenza mondiale.

Parole, queste ultime, che hanno giustamente acceso la speranza di un cambiamento, diffondendo la convinzione di essere finalmente a una svolta decisiva nelle politiche dei governi finora succedutisi alla guida del paese, soprattutto per quel che concerne università e ricerca.

Come sempre, staremo a vedere quel che accadrà veramente e vi terremo informati. Tuttavia,  sin da ora siamo costretti ad avvertire che non è il caso di farsi soverchie illusioni.

E’ l’Europa che ce lo dice, attraverso uno studio intitolato “Formazione superiore nell’UE”, l’ultima analisi del settore effettuata dal parlamento europeo, di recente presentata a Bruxelles.

Il periodo preso in esame dal rapporto è quello che va dall’inizio della crisi a tutto lo scorso anno. Ebbene, nel lasso di tempo considerato, ossia dal 2008 al 2014, l’Italia è, insieme a Grecia, Irlanda, Lituania, Regno Unito, Repubblica Ceca, Spagna e Ungheria, tra gli otto governi che hanno tagliato i fondi all’università oltre il 10%, con l’aggravante però che, prima dell’inizio della crisi, il nostro paese era, tra quelli dell’UE, il penultimo per percentuale di Pil investito nell’università: lo 0,83 del Pil, a fronte di una media europea dell’1,23. Con lo 0,78, solo la Slovacchia ha fatto peggio di noi.

Nel caso di specie, difficile, anzi impossibile, per il governo invocare l’Europa al fine di imporci il proverbiale allineamento alla media appunto europea. Una volta tanto, infatti, a chiederlo, questo benedetto allineamento, ben potrebbero essere i cittadini italiani che, visto come vanno le cose, si ritrovano, stando all’ultima inchiesta dell’Ocse, tra gli ultimi posti per competenze linguistiche e matematiche. Con tutto quel che ne consegue sulla riuscita nel mercato del lavoro e in termini di produttività delle imprese.

E’ vero che il contributo dello stato all’istruzione universitaria dipende da una serie di fattori, sicché con una domanda in calo anche la spesa si riduce, ma è altrettanto vero che anche la richiesta di appoggio da parte dell’Europa è rimasta costante in tutti quei paesi, come il nostro, in cui i fondi pubblici  per l’istruzione sono andati diminuendo.

C’è però da precisare un fatto importante, cioè che i fondi europei non possono sostituire il finanziamento nazionale, “che deve restare forte per mantenere alta la competitività”.

Se non si tiene conto di tutto questo, sarà difficile, dopo la Buona scuola, lanciare, come già preannunciato, la Buona università.

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