Gli ultimi dati diffusi da Ocse sul commercio internazionale confermano una situazione di debolezza che sembra dar ragione ai tanti che parlano di de-globalizzazione ed altre amenità. La realtà purtroppo è assai più semplice: si commercia meno sia perché si produce meno (le scorte sono diminuite bruscamente e anche la produzione di beni intermedi) sia perché le varie domande aggregate, vuoi per l’inflazione, vuoi per la scarsa fiducia, rimangono deboli, specialmente in Europa e nei paesi asiatici più dinamici. A ciò si aggiungano i costi crescenti del denaro, che scoraggiano il finanziamento del commercio.
Ciò non vuol dire che non ci siano tensioni internazionali, ovviamente. Ma semplicemente che la forza di gravità della globalizzazione è assai più forte di quello che si può credere scorrendo le nostre cronache, che hanno la consistenza temporale di un post social, a fronte di strutture e prassi che sono codificate e rodate dalla storia. Creare o spostare catene di fornitura richiede tempi del tutto incompatibili con le abitudini della nostra quotidianità.
La debolezza del commercio, tuttavia, è un fattore di preoccupazione perché, paradossalmente, alimenta lo scontento che poi trova nella critica alla globalizzazione, ossia al commercio internazionale, il suo ristoro momentaneo. E poiché andiamo incontro a un anno complicato, con elezioni politiche sensibili sia negli Usa che in Europa, allora dovremmo sempre ricordarci di questo modo curioso che ha molta parte dell’opinione pubblica di guardare alla questione delle politiche commerciali.
A livello statistico, Ocse ci informa che ormai dalla metà del 2022 la quota di commercio sul pil globale tende a declinare, vuoi per motivi strutturali – il cambio di costituzione economica in corso in Cina – vuoi per pura circostanzialità. Rimane il fatto che nessuno si aspetta di rivedere i tassi di crescita del commercio dei primi Duemila, almeno fino a quando il mondo non troverà (se lo troverà) un nuovo equilibrio basato su una paziente voglia di cooperare.
E’ proprio su questa vocazione che si cumulano i dubbi. L’aumento delle restrizioni commerciali che Ocse osserva con un certo scoramento testimoniano semmai del contrario. Racconta di un mondo che serra le fila, anziché aprirle.
E i fattori ciclici, che sono numerosi e fonte ognuno di loro di straordinarie complessità, non fanno che aggiungere benzina al fuoco dell’inimicizia fra i paesi.
Chi conosce la storia ricorda con quanta facilità gli anni Trenta del XX secolo condussero alla rovina dell’economia internazionale, con ciò che ne conseguì. Poiché ci avviciniamo ai nostri anni Trenta, faremmo bene a ripassare questa lezione di storia. Non tanto perché la storia si ripeta. Al massimo tendiamo a ripetere sempre gli stessi errori: l’essere umano è una notevole testa dura. Quanto perché rischiamo sempre di far peggio, se non impariamo una volta per tutte a pensar meglio.
Maurizio Sgroi
giornalista socioeconomico
autore del libro “La storia della ricchezza”
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