di Roberto Tomei
Trent'anni di pensiero unico e di adorazione del libero mercato ci hanno fatto precipitare in una crisi più buia e duratura della Grande Depressione del 1929.
I ceti popolari sono sotto assedio in tutto il mondo e la middle class è ridotta quasi in miseria persino negli Stati Uniti. Ora che libertà e prosperità non sono più all'orizzonte, la promozione della società dei consumi si delinea soltanto come un grande disegno che ha perso il suo fascino.
A monte del fallimento del programma globalizzatore c'è stata la pretesa di governare il mondo intero con l'unico meccanismo del libero mercato, applicato indiscriminatamente a ogni classe sociale, popolazione e territorio.
L'economia ridotta a tecnica della crescita, gestita secondo la più bieca omologazione di individui e stati, trattando in modo uguale ogni sorta di diversità. Il paradosso è che a risolvere la crisi sono chiamati gli stessi che l'hanno causata, i quali continuano ad adottare i soliti accorgimenti, dimenticando che a ripetere le stesse azioni non possono ottenersi risultati diversi.
Le hanno tentate e le stanno tentando tutte: dalle manovre sui tassi di interesse alle liberalizzazioni, dalla vendita di immobili pubblici all'innalzamento dell'età pensionabile. Ora è la volta della maggiore flessibilità del lavoro, nota da noi come dibattito sull'art.18 e dintorni, tutto proiettato al malcelato obiettivo di creare sempre meno lavoro a fronte di una maggiore produttività, così da non rischiare una diminuzione del volume del profitto.
Eppure, nonostante tutte le cure, la crisi incombe e si propaga sempre più.
Al punto in cui siamo, c'è solo da augurarsi che si sviluppi e si rafforzi una diversa cultura critica, capace di immaginare nuovi orizzonti per le nostre società.