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Mercoledì, 03 Lug 2024

di Rocco Tritto

Ci risiamo. Ancora una condanna al carcere, senza condizionale, per tre giornalisti accusati di diffamazione a mezzo stampa.

Questa la sentenza emessa nei giorni scorsi dal Tribunale di Milano alla fine di un processo che ha visto imputati Giorgio Mulè, direttore del settimanale Panorama, accusato di omesso controllo, Andrea Marcenaro e Riccardo Arena, autori dell’articolo ritenuto diffamatorio e ai quali va la solidarietà dell’intera redazione del Foglietto.

Nonostante il polverone sollevato qualche mese fa dal caso Sallusti, la cui detenzione si è interrotta dopo qualche giorno e solo a seguito del provvedimento di grazia firmato dal presidente della Repubblica, la legge n. 47 del 1948 continua, nell’indifferenza generale, a mietere vittime in un paese dove, è il caso di dirlo, tutti possono farla franca, meno i giornalisti, ovvero coloro che dovrebbero, con il loro lavoro, sopperire alla carenze, spesso gravi, degli organismi preposti al controllo della attività di coloro che amministrano, a vario, titolo, la cosa pubblica.

Le uniche cause che in Italia procedono spedite e raramente, ma molto raramente, vengono interrotte dalla prescrizione, sono proprio quelle che si occupano dei reati di opinione.

Sarà forse perché mal si sopporta l’attività giornalistica che il potere politico da anni fa orecchie da mercante, pur riconoscendo, sia da sinistra, sia da destra che dal centro, che la legge n. 47, che con i suoi 66 anni ha ormai superato l’età della pensione, va assolutamente modifica e aggiornata con quelle che sono le direttive europee, che da tempo hanno messo al bando il carcere per gli operatori della carta stampata.

Nei giorni scorsi c’è stata una escalation di dichiarazioni politiche, tutte disponibili a una rapida soluzione del problema ma, come già avvenuto in passato, presto l’oblio prenderà il sopravvento e tutto tornerà come prima.

Eppure, la soluzione è molto semplice e rapida da mettere in atto. Come ha fatto notare nei giorni scorsi Caterina Malavenda sul Sole 24 Ore, basterebbero due semplici mosse: “Abrogare l’art. 13 della legge sulla stampa, che per i soli giornalisti della carta stampata, in caso di diffamazione aggravata … prevede la reclusione da uno a sei anni …; e prevedere che non possa essere querelato chi ha pubblicato una rettifica, a richiesta o spontaneamente, purché con la necessaria evidenza”.

“Ciò – ha aggiunto la Malavenda – consentirebbe di rimettere la decisione sui danni residui (per chi si ritiene diffamato, ndr) al giudice civile, ma soprattutto, di azzerare il rischio di una condanna penale …”.

Fin troppo ovvia, dunque, la risoluzione del problema. Ma manca la volontà di una classe politica che, senza distinzione alcuna, da sempre vede il giornalista come un nemico. Da associare alle patrie galere.

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