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Giovedì, 04 Lug 2024

di Roberto Tomei

Ormai da troppo tempo a questa parte le statistiche sulla disoccupazione, in Europa ma soprattutto in Italia, denunciano un costante aumento del fenomeno, che sta “bruciando” un’intera generazione, dal presente incerto e senza prospettive future.

Si capisce, perciò, come il tema del lavoro, mai abbastanza in cima alle preoccupazioni dei governanti, costituisca oggetto di attenta riflessione da parte degli studiosi, specialmente economisti e giuristi. Tra questi ultimi, particolarmente interessante ci è apparso il recente contributo di Gustavo Zagrebelsky (Fondata sul lavoro. La solitudine dell’articolo 1, Einaudi editore), che si contraddistingue per l’accurato scandaglio degli aspetti problematici connessi al “diritto al lavoro”.

Questo, infatti, pur essendo l’unico tra i diritti a essere esplicitamente enunciato tra i principi fondamentali della Costituzione, è pur sempre il “risultato passivo di fattori diversi, con i quali deve risultare compatibile”. Sennonché, mentre dovrebbero essere “questi altri fattori a dover dimostrare la loro compatibilità col lavoro”, si assiste in concreto a un singolare capovolgimento, per cui è il lavoro a esserne condizionato. In particolare, a esser precisi, di capovolgimenti, attraverso i quali l’effettività finisce per prevalere sulla legittimità, Zagrebelsky ne elenca ben tre.

Nella decostruzione del mondo del lavoro, risulta evidente innanzitutto che “i due principi-guida delle relazioni industriali, l’unitarietà e la generalità, sono insidiati dalla frammentarietà e dalla specialità”. Quanto al primo, esso è stato accantonato a causa della rottura dell’unità d’azione dei sindacati (fenomeno che ha avuto peraltro corrispondenza in alcune aziende, uscite anch’esse dalla loro associazione di categoria); in più, “viene introducendosi un fattore di privilegio a favore dei sindacati contraenti e a sfavore di quelli non contraenti, i quali, secondo l’art. 19 dello Statuto dei lavoratori, non potrebbero costituire rappresentanze aziendali”. Ma anche il principio di generalità, che si esprime nel contratto collettivo nazionale, appare non poco logorato, sol che si pensi alla introduzione nel nostro ordinamento (con la legge di stabilità del 2011) dei “contratti di prossimità”, che possono derogare i contratti collettivi nazionali e perfino le disposizioni di legge. Una norma, questa, incredibilmente salvata dalla Corte costituzionale (sent. n. 221/2012). Si sta verificando così tutto l’opposto di quanto sancito nella Costituzione, dove si cerca di imporre standard comuni di tutela del lavoro e di combattere l’omologazione del lavoro verso il basso.

Il secondo capovolgimento riguarda il bene-lavoro, senza il quale è vano parlare di diritto. Si tratta dell’irruzione, accanto all’economia reale, dell’economia finanziaria, che dirotta le risorse verso la speculazione e non produce lavoro né stabilità sociale.

Ma l’aspetto paradossale della situazione sta nel fatto che sono poi gli stessi grandi speculatori internazionali, grazie all’appoggio di agenzie sedicenti indipendenti, a pretendere dagli Stati, come condizione dei loro investimenti, di risanare quei bilanci che essi stessi hanno contribuito a dissestare.

Se ne ricava che la finanza, quando invece di essere al servizio dell’economia reale si pone come fine a se stessa, è ontologicamente nemica della Costituzione, oltre che dei popoli su cui si abbatte la speculazione.

Il terzo capovolgimento riguarda la politica, che non sembra riuscire a governare cambiamenti che sono ormai di portata globale e favoriscono delocalizzazioni, che i lavoratori sono incapaci di contrastare. E’ uno scenario che il costituente sembra quasi aver previsto, allorché decise di stabilire, all’art.35, che “La Repubblica promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro”.

In ogni caso, anche nella nuova situazione che si è venuta a creare, “chi deve parlare, agire e combattere di conseguenza, sono le forze politiche, sindacali e culturali”. Ma a quanto pare nessuna di esse intende cambiare lo stato delle cose, neppure il premier Renzi che pure si è presentato prima al popolo delle primarie e poi agli italiani con lo slogan “cambiare verso”. Infatti, il suo job act conduce ad una precarizzazione permanente del lavoro, attento più al mondo della finanza che a quello dei lavoratori e dell'economia reale.

Invece, al di là e prima di qualsiasi  riflessione che si intenda fare sugli assetti economici preferibili per la nostra società, c’è bisogno innanzitutto di ristabilire il primato dell’economia reale, che vuol dire lavoro, superando il dominio dei mercati finanziari sulla sovranità dei popoli.

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