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Domenica, 05 Mag 2024

renzi madia 2Dopo le riforme dell’amministrazione di Cassese, Bassanini e Brunetta, ora è la volta di quella targata Madia. La quarta in vent’anni, segno che le altre non sono bastate a ridare vigore a un malato che tutti i governi cercano di curare, ma senza trovare la terapia giusta.

 

Difficile astenersi dal fare due rilievi di carattere generale: il primo, sostanziale, è che ogni volta si dichiara di agire con l’obiettivo di semplificare, ma si finisce poi inevitabilmente per produrre altre norme, con esiti talora assai discutibili; il secondo, formale, è che, come al solito, anziché procedere con un intervento organico, si finisce per licenziare testi alluvionali, pieni zeppi di norme che spaziano sull’universo mondo.

In quest’ultimo tentativo di riformare lo Stato si è scelto di ricorrere all’azione combinata di un decreto legge e di un disegno di legge delega, affidando al primo di trasporre in disposizioni normative le scelte di impatto immediato, tutte le altre opzioni rinviando al secondo, confinandole così nel limbo delle (buone?) intenzioni.

Senza pretesa di completezza e limitandoci alle novità che riguardano più da vicino il mondo degli impiegati, tra tutte si fa risaltare l’abolizione del trattenimento in servizio, dimenticando che si tratta di un istituto di fatto già non più utilizzato da tante amministrazioni, almeno da quando esso viene disciplinato come una nuova assunzione, sicché non si capisce come in virtù di tale abrogazione il governo stimi di poter ricavare 15mila posti di lavoro da qui al 2018. Numero che certamente non tiene conto che, per effetto del dimezzamento dei distacchi sindacali, quasi un migliaio di sindacalisti rientrerà negli enti. Ad essi, oltre a continuare a pagare lo stipendio, le amministrazioni dovranno erogare anche i buoni pasto, con un costo complessivo aggiuntivo di oltre un milione di euro. Come Renzi&co. abbiano potuto quantificare un risparmio di 110 milioni di euro dal taglio dei distacchi e permessi sindacali appare davvero difficile stabilirlo.

Pertanto, se questa è la “trovata” del governo, era meglio parlare di “generazione senza ricambio”, non di staffetta generazionale, senza illudere giovani speranzosi di lasciarsi alle spalle disoccupazione e precariato e “vecchi” desiderosi di godersi la pensione e i nipoti.

Né si può pensare di realizzarla, quella benedetta staffetta, puntando, in prospettiva, su un utilizzo più diffuso del part time, che “potrà” essere scelto dai dipendenti a cui mancano 5 anni per andare in pensione, garantendo loro di non vedersi decurtato l’assegno previdenziale. Ma quanti opteranno per il part time? Allora meglio l’”esonero” di Brunetta, un istituto che si farebbe ancora in tempo a recuperare.

Senza possibilità di esiti strabilianti, appaiono anche le misure in materia pensionistica: la facoltà per le amministrazioni di mandare in pensione i dipendenti che abbiamo raggiunto il tetto dei contributi (nell’anno in corso, 41 anni e sei mesi per le donne e 42 e sei mesi per gli uomini) e la possibilità, prorogata al 31 dicembre 2018, ma estesa anche agli uomini, di essere collocati in quiescenza con 35 anni di contributi e 57 di età, argomento affrontato dal Foglietto del 4 febbraio scorso.

Nel primo caso, infatti, al raggiungimento della soglia contributiva, coloro che restano in servizio rappresentano un numero davvero insignificante. Nel secondo caso, invece, l’opzione-pensione avrebbe un costo elevatissimo: assegno mensile interamente calcolato col sistema contributivo, con totale rinuncia alla quota di retributivo. Risultato: 30/35% in meno di pensione.

Lasciando le cose come sembra che stiano, l’unica staffetta certa è quella di Renzi and his friends.

Ma se è fumosa la staffetta, è sicura invece la stretta: è stabilita una dieta per le amministrazioni centrali e locali, che nei prossimi anni dovranno garantire una minore spesa complessiva dell’1% rispetto a quella sostenuta nel 2013.

Né se la passeranno meglio i dirigenti pubblici, il cui salario accessorio non potrà superare il 15% di quello complessivo e sarà agganciato a indicatori come l’andamento del Pil, mai rialzatosi negli ultimi anni, tranne che nelle stime degli statistici, sempre prontamente corrette al ribasso. Per non parlare poi della norma sulla licenziabilità che, una volta applicata, di fatto nega al dirigente qualunque chance di rientrare nel mondo del lavoro.

Per converso, vi è la norma, per ora negli enti locali, che eleva dal 10 al 30 la percentuale degli incarichi dirigenziali affidati intuitu personae, al di fuori di qualsiasi procedura concorsuale, a "persone di fiducia".

Lasciamo perdere il co-working (utilizzo degli stessi ambienti di lavoro) e lo smart-working (impiego delle tecnologie più avanzate, come il telelavoro), strumenti che ci sono già ma non hanno avuto successo e niente fa presagire che lo avranno in futuro, tanto più che vi si potrà ricorrere nell’ambito delle risorse di bilancio delle amministrazioni coinvolte, le stesse alle quali, come detto sopra, si chiede di tirare la cinghia.

Viene, infine, spacciata per innovativa la norma sulla mobilità volontaria, secondo cui non ci vuole più il nullaosta dell’amministrazione cedente, ma si tace sul fatto, a tutti noto, che da sempre a chi va via si fanno ponti d’oro.

Veramente innovative, ma in pejus, sono invece le norme sulla mobilità obbligatoria, anche se entro 50 km, e quella sul demansionamento, ovvero la possibilità di affidare mansioni inferiori ai dipendenti. Norme applicabili al personale dichiarato in esubero. Speriamo che esse non vadano a colpire i “non allineati” di turno.

L'unico provvedimento accettabile sembra essere il divieto di assegnare incarichi dirigenziali a lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza, a quelli che sono soliti uscire dalla porta e rientrare dalla finestra.

Quanto al contratto, scaduto nel 2009 e cancellato nei cinque anni successivi, nessun impegno concreto da parte governo dei nuovi “riformatori”, rapido solo quando si tratta di tagliare diritti (anche sindacali) e di erogare 80 euro in maniera del tutto scriteriata. Per fini elettorali.

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