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Giovedì, 04 Lug 2024

altCon diversi articoli apparsi sul Foglietto sono spesso intervenuto sul sistema universitario italiano che, maldestramente, scimmiotta solo nella forma quello americano.

In particolare, ho avuto modo di rimarcare in uno di questi editoriali come la differenza sostanziale fra i due sistemi sia il fattore culturale, che negli Usa è di stampo prettamente Luterano-Puritano, mentre in Italia è Cattolico.

Questa differenza, che si ripercuote anche ovviamente nella politica, e quindi nei comportamenti sociali, non può non trovare un riscontro anche nella passione italiana dominante: il calcio.

Tutto il malessere, che per l'ennesima volta si manifesta con virulenza negli ultimi fatti di cronaca legato al calcio-scommesse, non può che essere una logica conseguenza di quanto succede nel resto della società. E d'altronde perché non dovrebbe essere così?

Ma che c'entra il fattore culturale nel paragone sportivo fra mondo americano e italiano? Cercherò di spiegarlo, essendo io tra l'altro uno dei tanti milioni di italiani appassionati di calcio.

Lo sport negli Stati Uniti, come in Italia, costituisce un enorme business che, in verità, con l'agonismo in senso decoubertiniano ormai c'entra come il cavolo a merenda.

Alla base del business sportivo americano c'è la visione capitalistica vera, che è fatta di libera concorrenza e competizione. Se la concorrenza è reale, il tutto non può che tradursi in un maggiore successo in termini di affari. Ma per determinare la concorrenza bisogna eliminare le posizioni dominanti (alias i monopoli). Questo vuol dire che in un torneo non possono esserci un paio di squadre che sono molto più forti delle altre e che, quindi, vincono sempre lo scudetto; se questo succede, subentra la noia, perché assistere a competizioni con vincitori sempre più o meno scontati alla fine allontana gli appassionati e, di conseguenza, il business ne soffre.

Allora cosa fanno nel Paese capitalistico per eccellenza, nel loro sport nazionale, il Football?

La NFL (Lega Nazionale del Football) ripartisce tutti gli introiti miliardari derivanti dai diritti televisivi in parti uguali fra tutte le squadre partecipanti al Torneo, in modo che tutte le squadre abbiano uguali capacità di intervenire sul mercato, ingaggiando i giocatori migliori.

Inoltre, rispetto a questa prima sostanziale differenza riguardante la ripartizione dei cospicui introiti televisivi, interviene una seconda grande differenza fra l’organizzazione americana e quella italiana … pur avendo le stesse entrate da diritti televisivi, la squadra che ha vinto lo scudetto americano non può ingaggiare i migliori giovani giocatori  (le prime scelte), che si rivelano come tali nei Campionati dei College (cosiddetti dilettanti, che in verità non lo sono), ma lo possono fare le squadre che si sono classificate per ultime.

Lo scopo è di non consentire ai forti di diventare sempre più forti … uccidendo così la competizione e, quindi, determinando un decremento di business.

Inoltre, sempre per impedire manfrine e ingiustizie sportive, da decenni nel Football (come in altri sport) si fa uso sul campo di gioco della moderna tecnologia, per aiutare gli arbitri a non sbagliare.

Cosa succede invece nel nostro amatissimo sport nazionale? I diritti televisivi vengono divisi assurdamente sulla base del cosiddetto bacino di utenza dei tifosi della squadra X o Y, il che significa privilegiare sempre le stesse, poche, squadre forti, che si divorano quasi tutta la torta, lasciando le briciole a squadre con bacino di utenza di tifosi più limitato.

L’effetto è che le compagini più forti continuano a diventare più forti, comprando il meglio che offre il mercato.

In più viene, molto interessatamente, rifiutata qualsiasi innovazione tecnologica, con la scusa che con queste innovazioni il gioco perderebbe il suo fascino. In realtà, i padroni del vapore non vogliono perdere il controllo del sistema attraverso la "manipolazione" degli arbitri.

Forse sarà stato un caso, ma l'unica volta che si è avuta una grande sorpresa per la conquista dello scudetto è stato nel 1987, quando si usò il sorteggio integrale per la designazione degli arbitri. Quell’anno, molto stranamente ad appuntarsi lo scudetto sul petto fu il Verona. Dopo quell'infausto evento, il sorteggio arbitrale fu immediatamente eliminato.

Fra le tante amene storielle del mondo del calcio c'è, per esempio, quella secondo la quale, alla fine, gli errori arbitrali verrebbero equamente ripartiti fra le varie squadre.

Ma i milioni di appassionati sanno bene che così non è. Infatti, solo rarissimamente (direi mai) gli arbitri commettono una sfilza di "errori" a favore degli ultimi della classifica. Gli errori sono invece prevalentemente a favore dei primi in classifica.

Nella sostanza, il calcio gestito con logiche "monopolistiche" tende a garantire i più forti e quindi non può che rappresentare la metafora della società, laddove si eccelle - come scriveva lo scrittore Ennio Flaiano - nel correre, sempre e comunque, in soccorso dei vincitori.

*Professore Ordinario in Geochimica Ambientale presso l'Università di Napoli Federico II e Adjunct prof. presso Virginia Tech, Blacksburg, VA, USA

 

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