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Sabato, 06 Dic 2025

Sarà che s’avvicina l’estate, anche se è appena entrata la primavera, ma il tormentone sulla flessibilità in uscita è già ri-cominciato.

Fu proprio in estate, infatti, che l’anno scorso questo tema esplose in tutta la sua virulenza. Ogni giorno che Dio mandava ne erano inondate stampa e televisione, dato che ne parlavano proprio tutti: politici, parapolitici, giornalisti, economisti, sociologi, intellettuali vari, conduttori di programmi cosiddetti di approfondimento e di talk show. Ne restò immune solo il cinema.

Il tema era (ed è) sentito da tutti, perché riguarda direttamente i “vecchi” (che ancora tali non sono) ma coinvolge anche i “giovani” (che tali non sono più), che nell’”uscita” dei primi intravedono la loro chance di “entrata” nel mondo del lavoro. Vera o falsa che sia questa credenza, l’idea che la sorregge è stata veicolata nel corpo sociale da destra e da sinistra, mobilitando tutti gli attori che contano.

Anche adesso che il dibattito sembra rianimarsi, quell’idea continua ad atteggiarsi come l’unico grimaldello che potrebbe forzare la serratura - escogitata, tra le lacrime, dalla Fornero - che ha impedito l’uscita dal lavoro di milioni di italiani.

Come nell’anno passato, uno dei protagonisti del dibattito è Tito Boeri, attuale presidente dell’Inps. In teoria, quello che ne dovrebbe sapere di più, perché conosce i conti e “sta sul pezzo”.

All’indomani della nomina al posto che ricopre, segnando una netta discontinuità col passato, Boeri rivendicò per l’ente previdenziale di cui era stato messo a capo un potere di proposta sulla materia che governava, per poi esercitarlo con gran rumore di  parole e cifre.

Ne nacque il dibattito, riaccesosi di recente, nel quale vennero fuori tanti di quei numeri da riempire un’altra edizione della Smorfia. Ma il passato è passato. I nuovi conti dicono questo: per abbattere la disoccupazione giovanile, ormai al 40%, si possono/debbono far uscire i vecchi a 63 anni, con una decurtazione della pensione del 9%. Quanto all’importo della pensione, per capirci meglio, seguiranno (o precederanno, tanto è uguale) buste arancioni, ma i più svelti possono darsi una regolata visitando il sito dell’Inps.

Chi ha seguito la questione l’anno scorso, ricorda bene come è andata a finire: tra tutti quelli che intervennero nel dibattito, il meno loquace fu Padoan, che era poi quello che teneva (e tiene) i cordoni della borsa. Il ministro dell’Economia parlò una volta sola, forse due, dicendo, col consueto richiamo all’Unione europea, che non c’erano margini per la flessibilità in uscita. La commedia si trasformò così in un autogol per coloro che la animarono e in tragedia per coloro che vi assistettero.

Anche se dovesse servire soltanto ad animare la dialettica tra le diverse componenti del (futuro o attuale che sia) ”partito della nazione”, un dibattito vero sulle pensioni sarebbe meglio farlo al ”Nazareno” piuttosto che replicarlo in pubblico. Ormai conta solo l’esito.

Sfinita da tante chiacchiere, la gente s’aspetta un lieto fine. Proprio come in tutte le commedie che si rispettano.

Intanto, il ministro del Lavoro, Poletti, la scorsa settimana, in applicazione della Legge di stabilità 2016, ha introdotto per decreto il «contratto a tempo parziale agevolato», per consentire ai dipendenti privati vicini alla pensione un’uscita graduale dall’attività lavorativa.

Gli interessati potranno concordare con l’azienda una riduzione dell’orario di impiego tra il 40% e il 60%; in cambio, oltre alla retribuzione ridotta, riceveranno in busta paga una somma esentasse corrispondente ai contributi previdenziali a carico del datore (sulla retribuzione per l’orario non lavorato). Sarà lo Stato, per il periodo di riduzione della prestazione lavorativa, a riconoscere a questi dipendenti la contribuzione figurativa corrispondente alla prestazione effettuata, in modo da garantire che alla maturazione dell’età pensionabile venga percepito l’intero importo dell’assegno, senza penalizzazioni.

Pur trattandosi di una misura largamente insufficiente per contribuire a ridurre la grave crisi occupazionale, essa esclude il pubblico impiego, dove invece la flessibilità in uscita sarebbe quanto mai necessaria, anche per agevolare l'assunzione a tempo indeterminato delle migliaia di precari presenti ormai in  ogni settore della pubblica amministrazione.  

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