Otto giorni fa Taiwan, alias Repubblica di Cina, è andata al voto politico sia per le presidenziali che per rinnovare il parlamento. Quando ero ragazzino l'isola si chiamava Formosa e vi si era rifugiato Chiang Kai-shek capo del Kuomintang dopo aver perso la guerra civile con i comunisti cinesi guidati da Mao Tse-tung. Sentivo alla radio che quando i cinesi di Mao si arrabbiavano bombardavano le isole Quemoy, oggi Kinmen, e Matsu occupate da Chiang Kai-shek. Poi nomi sono un po' cambiati insieme alla storia del mondo. Formosa è diventata Taiwan e Mao è diventato Zedong. Il seggio all'Onu è passato da Taiwan alla Cina popolare comunista il 25 ottobre del 1971, dopo la visita segreta di Kissinger nel luglio precedente che aveva sbloccato i rapporti fra americani e cinesi assai gelidi durante il primo e più duro periodo della "guerra fredda".
Il voto taiwanese considerando che si svolgeva in un punto cruciale del confronto fra Cina e Usa non è andato male. È vero che ha vinto Lai Ching-te, candidato del Partito democratico progressista molto inviso a Pechino, ma solo col 40% dei voti mentre in Parlamento il Kuomintang di Ho Yu-ih, più disponibile al dialogo (quantum mutatus ab illo) con la Cina di Xi Jimping avrà, secondo il complicato sistema elettorale locale, 52 seggi contro i 51 di Lai, mentre il Partito popolare di Ko Wen-je ne avrà 8. Altri due andranno agli indipendenti. Insomma, i cinesi di Taiwan tengono alla loro indipendenza, ma non vogliono la guerra con La Cina popolare. Tutto sommato un voto moderato.
Il voto di Taiwan ha aperto un anno elettorale mondiale che vedrà andare alle urne più di quattro miliardi di persone in paesi grandi e piccoli. Molte elezioni si svolgeranno in paesi dove la democrazia è inesistente e il voto sarà poco più che un plebiscito per osannare il sovrano o dittatore di turno. Ma altri no, soprattutto nell'Occidente euroatlantico o in India.
In Europa si voterà per l'europarlamento ma anche per le legislative in Belgio, Croazia, Lituania, Portogallo, Romania, fuori della Ue in Gran Bretagna, e per le presidenziali in Croazia, Finlandia, Lituania, Romania, Slovacchia, Islanda.
Inoltre, le primarie repubblicane dell'Iowa hanno riproposto come incombente e possibile vincitore delle elezioni presidenziali americane del novembre prossimo il fascistoide Trump. Non è una sorpresa; è, invece, il segno profondo di una perdurante crisi della democrazia americana e dei due partiti repubblicano e democratico che ne scandiscono da sempre l'andamento.
La mia impressione è che dopo le primarie repubblicane dell'Iowa nulla è come prima, soprattutto in riferimento alla loro incidenza negativa sulle guerre in Ucraina e Medio Oriente in corso. L'assalto nazionalista e xenofobo alla democrazia in atto in tutto l'Occidente ha trovato, com'era da immaginarselo, in Trump un punto di coagulo interno ed esterno sul piano mondiale.
A tifare per Trump è Putin e anche Netanyahu. La Cina di Xi Jimping è più prudente. Il Tycoon americano dice che lui, se ridiventa Presidente, risolverà le due guerre. Come, non è dato sapere. L'ultima volta che mise mano in Palestina-Israele fu per trasferire l'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Con tanti saluti allo Stato Palestinese. Se quella è la strada è meglio soprassedere. In Ucraina l'attitudine del Trump di "America first" potrebbe essere quella, che è nelle sue corde, di una spartizione della stessa Ucraina con Putin e non di una trattativa per una pace giusta. Comunque, sta di fatto che il Tycoon americano impersona una certa propensione fascistica presente in tutte le democrazie occidentali. La prima ad avere conseguenze negative da una sua vittoria sarebbe l'Europa già malmessa di suo. La Ue sarebbe messa più rapidamente del prevedibile di fronte a una sorte di hic Rhodus hic salta e non è affatto detto che sarebbe in grado di saltare verso una sovranità federale.
L'altra faccia del 77enne Trump è Biden. Il quasi ottantaduenne traballante Presidente americano non solo non è riuscito a sotterrare il trumpismo, ma si è impelagato in Ucraina con una strategia politica e militare del tutto sbagliata. Ha puntato, nonostante i consigli del capo di Stato maggiore generale Milley, alla vittoria militare sul campo invece di un accerchiamento politico di Putin per costringerlo alla trattativa e in Palestina, crisi capitatagli tra capo e collo, non riesce a far ragionare Netanyahu sui due Stati - quello israeliano che già c'è e quello per i palestinesi che non c'è - e a scongiurare l'allargamento del conflitto alla polveriera mediorientale. Ora i due fardelli della guerra in corso, e le minacce nucleari che esse comportano, gli presentano il conto.
La crisi della democrazia americana è anche quella di un partito democratico che condizionato da una oligarchia paralizzante e paralitica - vedesi il precipitare della deludente vicepresidente Kamala Harris - non riesce a mettere in campo una candidatura giovane e convincente, in grado di portare al voto con un rinascente entusiasmo la maggioranza interrazziale degli americani che vogliono diritti, solidarietà, giustizia sociale ed eguaglianza razziale.
Ha ragione Biden nel dire che Trump è una minaccia per la democrazia americana ma è fortemente dubbio che sia lui il candidato giusto per batterlo anche perché, in qualche modo, lo ha resuscitato.
Aldo Pirone
scrittore e editorialista
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