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Mercoledì, 03 Lug 2024

di Luca Marchetti

Con la vittoria finale del noir Black Coal, Thin Ice del cinese Diao Yinan si è conclusa la sessantaquattresima edizione del Festival del Cinema di Berlino. Una kermesse eccitante e coinvolgente, lontana dai lustrini del glamour della Croisette e del Lido e splendidamente inserita nel contesto metropolitano di una capitale europea, che ha accolto entusiasta ogni proiezione. Distribuito nelle sale di tutta la città (dal fascino retrò dell’International di Karl Marx Allee all’accogliente Zoo Palast, passando per le multisale di Alexanderplatz), la Berlinale si è divisa tra eventi cinematografici unici e una selezione piena di sorprese.

I film

Il concorso è sempre stato il punto debole del Festival. Costretto tra le selezioni di Venezia e di Cannes, il team della Berlinale ha spesso dovuto organizzare una sezione competitiva di livello abbinando autori celebrati a esordienti pieni di buone speranze, con un occhio attento all’impegno e ai risvolti politici (il marchio di fabbrica del festival).  Questa scelta programmatica porta lo spettatore a ritrovarsi di fronte veri e propri capolavori o opere seriose e piene di sé.

Una grande pellicola è stata, ad esempio, l’emozionante The Little House, melò in costume del maestro Yoji Yamada. A ottantatré anni il regista nipponico continua a raccontare storie commoventi con una saggezza unica, raggiungendo vette emotive rare.

Stesso livello d’intensità, ma con un altro modo di pensare il Cinema, è stato raggiunto anche dall’americano Richard Linklater, arrivato nella capitale tedesca con Boyhood, il progetto di una vita, film le cui riprese sono durate circa dodici anni. La pellicola segue l’infanzia e la crescita del giovane Mason, protagonista di una straordinaria vita comune.

Vanno segnalate anche la divertente commedia nera norvegese (in puro stile fratelli Coen) In Order of Disappearance di Hans Petter Moland, il duro Stratos del greco Yannis Economides e l’ennesima sorpresa proposta dal venerato maestro Alain Resnais, ancora una volta capace con il suo colorato Aimer, boire et chanter di nuove invenzioni cinematografiche, nonostante i suoi novantadue anni di età. Per converso, non sono mancati i passi falsi, come l’emblematica pellicola super-impegnata Macondo, della documentarista austriaca Sudabeh Mortezai, opera che dimostra in modo chiaro come, spesso, per inseguire la denuncia a tutti i costi, alcuni autori arrivano a respingere solamente il proprio pubblico.

Archiviato il concorso ufficiale, nelle sezioni collaterali, invece, si sono incontrate pellicole molto interessanti. Se a parole è impossibile descrivere l’ultima, incredibile opera di Tsai Ming-Liang, capace con i soli cinquanta minuti del suo Xi You di portare il Cinema verso inedite direzioni.

Piacevoli esperienze si sono rivelati anche l’irlandese Calvary di John Michael McDonagh e le due commedie amare francesi Arrete ou je continue e Dans la Cour, tre film capaci di muoversi nei territori del divertimento, senza negarsi una profonda e destabilizzante anima disperata. Dimenticabili, senza dubbio, le proiezioni evento organizzate del Berlinale Special Gala. A Long Way Down di Pascal Chaumeil, The Two Faces of Jenuary di Hossein Amini e Cesar Chavez di Diego Luna sono state pellicole d’intrattenimento, sinceramente prive di emozioni e prospettive. Altra delusione si è rivelata l’ultima prova da regista del divo George Clooney. Il suo Monuments Men, infatti, pur toccando un argomento interessante e poco trattato (i furti d’opere d’arte durante la Seconda Guerra Mondiale), si dimostra presto troppo didascalico, manifestando un’incomprensibile mediocrità di scrittura, che mai ci saremmo immaginati da parte di Clooney.

Per finire, non resta che spendere qualche parola anche per il vero evento del festival, la presentazione del Nymphomaniac - Volume 1 di Lars Von Trier. Noioso trattato sulla sessualità, travestito da opera trasgressiva e pornografica, il film del tanto venerato regista danese è un enorme bluff, una pellicola stanca e conformista, vittima del tronfio ego del proprio autore, troppo interessato al proprio status di presunto regista maledetto per pensare ad altro. Il risultato è un’opera furba, noiosa e inoffensiva che scatenerà l’entusiasmo di molti, incapaci di vedere la pochezza di un’operazione esclusivamente commerciale.

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